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La proposta prevede che per iscriversi ai nidi d’infanzia, ai servizi integrativi per la prima infanzia e alla scuola dell’infanzia i bambini debbano avere effettuato non solo le vaccinazioni obbligatorie, ma anche quelle raccomandate dal Piano nazionale prevenzione vaccinale. Il testo passa ora al Consiglio.

Vaccini obbligatori in Toscana per l’accesso al nido e alla scuola materna. La Giunta regionale ha approvato stamani la proposta di legge presentata dall’assessore al diritto alla salute Stefania Saccardi che prevede che l’aver effettuato non solo le vaccinazioni obbligatorie, ma anche quelle raccomandate dal Piano nazionale prevenzione vaccinale, costituisca requisito per l’iscrizione ai nidi d’infanzia, ai servizi integrativi per la prima infanzia (servizi che integrano l’offerta del nido: spazio gioco, centro per bambini e famiglie, servizio educativo domiciliare; tra questi servizi non sono comprese le ludoteche) e alla scuola dell’infanzia (scuola materna).

Approvata dalla Giunta, ora la proposta di legge seguirà l’iter per l’approvazione in Consiglio regionale. Entro 60 giorni dall’entrata in vigore, la giunta approverà specifiche linee guida e modalità attuative della legge, anche tenendo conto dei casi in cui la vaccinazione deve essere omessa o differita, per accertati pericoli concreti per la salute del bambino, in relazione a specifiche condizioni cliniche. “La legge sarà senz’altro in vigore per l’inizio del prossimo anno scolastico”, afferma la Regione in una nota.

“Quella che abbiamo approvato oggi è una misura a tutela della salute pubblica di tutta la comunità – dichiara nella nota il presidente Enrico Rossi – In primo luogo dei bambini e soprattutto di quelli più deboli: quelli che per motivi di salute, immunodepressi o con gravi patologie croniche, non possono essere vaccinati e sono quindi i più esposti ai contagi. Con questo intervento consolidiamo ciò che di buono è stato fatto in questi anni e facciamo un ulteriore passo in avanti. La Regione Toscana ha oggi confermato di avere un ruolo attivo per proteggere e garantire la salute di tutti non lasciando campo aperto a involuzioni pseudoscentifiche o, per citare il presidente Mattarella riguardo ai vaccini, a “sconsiderate affermazioni prive di fondamento”.

La vaccinazione è un atto di responsabilità dei genitori nei confronti dei propri figli e dell’intera comunità – sottolinea Stefania Saccardi – Vaccinare il proprio bambino vuol dire proteggerlo da tante malattie, oggi drasticamente ridotte proprio grazie ai vaccini. Ed è anche un gesto responsabile nei confronti di quei bambini che, per particolari patologie, non possono essere vaccinati e quindi sono più esposti al rischio di malattie. Negli ultimi anni anche in Toscana, come a livello nazionale, stiamo assistendo a un calo preoccupante della copertura vaccinale. Come Regione, a ottobre abbiamo varato la campagna “Dammi un vaccino”, per ricordare a tutti che il vaccino è lo strumento più efficace e sicuro per la prevenzione delle malattie infettive. Ora abbiamo deciso anche di introdurre l’obbligo delle vaccinazioni per l’ingresso all’asilo nido e alla scuola materna”.

Questi i vaccini previsti dal Piano nazionale come obbligatori per i bambini: poliomielite, difterite, tetano, epatite B. E questi i vaccini raccomandati (che però, avvertono gli esperti, non vanno ritenuti meno importanti di quelli obbligatori): pertosse e haemophilus B (che sono nell’esavalente insieme ai 4 obbligatori), meningococco C e B, pneumococco, morbillo, rosolia, parotite, varicella.

“L’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) – evidenzia la Regione – stima che ogni anno circa 3 milioni di persone, tra cui moltissimi bambini, siano salvati grazie ai vaccini. Tuttavia ancora oggi circa un milione e mezzo di persone perdono la vita ogni anno nel mondo per malattie potenzialmente prevenibili con un vaccino. Questo perché un bambino ogni 5 a livello globale non viene vaccinato. E se da una parte i Paesi in via di sviluppo compiono enormi sforzi per migliorare le copertura vaccinali, dall’altra, soprattutto nei Paesi più avanzati si assiste a un calo dell’adesione ai programmi vaccinali”.

Il Piano nazionale di prevenzione vaccinale si pone l’obiettivo di mantenere una percentuale di copertura vaccinale del 95% per tutte le vaccinazioni, “perché scientificamente garantisce una adeguata protezione di comunità (la cosiddetta immunità di gregge). Questa protezione – spiega la Regione – è fondamentale sia per ridurre la circolazione dei patogeni, che per proteggere quella parte di popolazione che per reali controindicazioni mediche non può effettuare alcune vaccinazioni, o che non è in grado di rispondere al vaccino con un’adeguata risposta immunitaria”.

Secondo i dati diffusi dalla Regione, negli ultimi tre anni anche in Toscana si sta assistendo a un calo che, anche se meno pronunciato di quanto accade nel resto d’Italia, porta le coperture vaccinali per tutte le vaccinazioni al di sotto della soglia del 95% (con la sola eccezione dell’antitetanica). Qualche esempio: per la polio nel 2012 la copertura era al 95,3%, nel 2015 è scesa al 94,9%; per la difterite, 96,5% nel 2012, 94,9% nel 2015; per l’epatite B, 95,1% nel 2012, 94,8% nel 2015. La flessione interessa anche le altre vaccinazioni del calendario regionale quali varicella, parotite, rosolia, morbillo, queste ultime oggetto, tra l’altro, di uno specifico programma nazionale di eliminazione. Anche qui, qualche esempio: morbillo, 91,1% nel 2012, 88,7% nel 2015; rosolia, 91,1% nel 2012, 88,6% nel 2015.


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Lo stabilisce uno studio dell’Università della California di San Diego che ha preso in esame 1.500 donne della Women’s Health Initiative. Fare mezz’ora di attività fisica al giorno, protegge da questo invecchiamento precoce, anche chi trascorre gran parte della giornata seduto. Un invito ad iniziare lo sport da ragazzini e a continuare a praticarlo anche dopo gli 80 anni

Una maniera certa per invecchiare? Stare troppo seduti e dedicare troppo poco tempo all’attività fisica. E’ il messaggio che arriva da uno studio della University of CaliforniaSan DiegoSchool of Medicine, pubblicato su American Journal of Epidemiology.

I risultati dello studio non lasciano adito a dubbi: le donne anziane che trascorrono più di 10 ore della loro giornata sedute e che fanno pochissima attività fisica presentano cellule che sono di ben 8 anni più ‘vecchie’ da un punto di vista biologico, rispetto alle coetanee più attive.

Il problema risiede nei loro telomeri, che come parte del normale processo di invecchiamento, si accorciano e si sfilacciano; ma nelle persone dedite ad attività poco salutari quali il fumo o nei soggetti obesi questo processo subisce un’accelerazione. E non è un bene perché oltre che all’invecchiamento, l’accorciamento dei telomeri correla con le malattie cardiovascolari, con il diabete e con la maggior parte dei tumori.

“La nostra ricerca ha dimostrato – spiega il primo autore dello studio Aladdin Shadyab, Department of Family Medicine and Public Health presso la UC San Diego School of Medicine – che le cellule invecchiano precocemente se si conduce una vita sedentaria ed è noto da tempo che l’età anagrafica non sempre va di pari passo con quella biologica”.

Lo studio ha coinvolto circa 1.500 donne di età compresa tra i 64 e i 95 anni, reclutate tra quelle che partecipano alla Women’s Health Initiative (WHI), uno studio longitudinale condotto negli Usa allo scopo di individuare le cause delle patologie croniche nelle donne in post-menopausa. Alle donne partecipanti allo studio californiano è stato chiesto di compilare dei questionari e di indossare un accelerometro (posizionato sull’anca destra) notte e giorno per una settimana, allo scopo di monitorare i loro movimenti.

“Questo ha consentito di scoprire che le donne che trascorrono molto tempo sedute, se fanno esercizio fisico almeno mezz’ora al giorno (che è quanto viene raccomandato dalle linee guida americane) non presentano questa accelerazione nell’accorciamento dei telomeri. Bisognerebbe dunque cominciare a fare attività fisica sin da giovani e proseguirla come componente normale della vita quotidiana per tutta la vita. Anche a 80 anni”.


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Tutti gli operatori sanitari – e in particolar modo quelli che lavorano per il Ssn – sono eticamente «obbligati a informare, consigliare e promuovere le vaccinazioni in accordo con le più avanzate evidenze scientifiche». Diffondere informazioni non provate, invece, è «moralmente deprecabile» e «costituisce grave infrazione alla deontologia professionale».

E’ uno dei passaggi più controversi del Piano nazionale vaccini 2017-2019, elaborato dal ministero della Salute e approvato ieri dalle Regioni a braccia aperte.

«E’ una giornata importante» ha commentato il presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini «Il tema vaccinazioni è fondamentale per un approccio serio in termini di prevenzione, sia rispetto al riaffacciarsi di patologie che credevamo ormai definitivamente superate, sia rispetto alle coperture necessarie per altre gravi malattie e per le fasce più deboli della popolazione».

Il sì unanime delle Regioni si spiega anche con l’accoglimento della loro richiesta di dare maggiore gradualità al nuovo calendario vaccinale, più esteso del precedente. Non in tutte le Regioni, quindi, sarà subito accessibile la nuova offerta di vaccini introdotta dal Piano: da una parte la profilassi per pneumococco, meningococco, varicella, vaccino anti-Hpv, dall’altra i vaccini (gratuiti per fascia d’età e per categorie a rischio) contro meningococco B e rotavirus, varicella (secondo anno e poi 5-6 anni), Hpv nei maschi 11 enni, Ipv meningo tetravalente, pneumococco e zoster.

Il nuovo calendario, ha assicurato il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, sarà operativo in poche settimane: «Bisogna aspettare la pubblicazione in gazzetta» ha detto ieri «da quel momento entra in vigore. Poi ci la sarà circolare che darà indicazioni su come procedere e il riparto del fondo (di 800 milioni, ndr)».

Il Codacons, invece, ha già annunciato ricorso davanti al Tar per quei passaggi del Piano che «aprono la strada a una legge nazionale diretta a rendere la vaccinazione un prerequisito per la frequenza ad asili e scuole».


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Dal fumo di sigaretta, all’uso eccessivo di detersivi, candele o incensi. Dai mobili nuovi a vernici, disinfettanti, solventi e muffe. Sono solo alcune delle tanti fonti di inquinamento dell’aria presenti normalmente in casa e che possono costituire un rischio per la nostra salute. A indicare alcune semplici regole da seguire è l’opuscolo “L’aria della nostra casa, come migliorarla?”, pubblicato sul portale dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss).

L’inquinamento non è solo fuori dalle nostre case e provocato dalle emissioni di auto, caldaie e camini, ma anche dentro le nostre abitazioni e, in generale, nei luoghi chiusi, ovvero “indoor”.

Il primo consiglio è non fumare dentro casa. Una corretta abitudine è invece quella di areare spesso gli ambienti, in particolare quando si cucina o si utilizzano prodotti per la pulizia, dopo la verniciatura di una stanza e in caso si abbiano animali domestici, ma anche in presenza di nuovi mobili da arredo, «poiché potrebbero rilasciare inquinanti chimici per lungo tempo». Limitare l’uso di insetticidi, utilizzare con attenzione prodotti da bricolage come colle, solventi e sigillanti. Nello scegliere le vernici con cui tinteggiare preferire quelle a basse emissioni, come riportato su etichetta. E’ buona norma poi pulire con cadenza i filtri dei condizionatori e far prendere aria ai vestiti ritirati dalla lavanderia prima di riporli nell’armadio. E ancora lavare con regolarità tende e tappezzerie ed evitare temperatura e umidità troppo elevate perché possono favorire la formazione di muffe e acari. Infine non eccedere con l’utilizzo di prodotti di pulizia, detergenti e detersivi, incensi e candele profumate.

«Il pulito – spiega la guida – non ha odore. Preferire aceto e bicarbonato e lasciare prodotti più aggressivi», come candeggina e ammoniaca, «solo quando strettamente necessario».

ANSA


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Un gruppo di psicologhe di università inglesi e australiane pubblica su Trends in cognitive sciences una sorta di call to action per gli psicologi di tutto il mondo. È arrivato il momento di attingere a piene mani ai database dei social network e della messaggistica online, infiocchettata di emoticon ed emoji. Miniere di informazioni gratuite e alla portata di tutti. E la psicologia del terzo millennio diventa inevitabilmente ‘cyber’

Trovare nuove chiavi interpretative del comportamento umano, leggendolo attraverso i comportamenti online, così pervasivi nella nostra società digitale. Questa la proposta di un gruppo di psicologhe di università inglesi e australiane (Linda K. Kaye, Helen J. Wall e Stephanie A. Malone) autrici di un lavoro pubblicato su Trends in cognitive sciences (Cell press).

La comunicazione, attività vitale per tutti, si avvale di comportamenti verbali e non verbali, questi ultimi spesso più importanti e portatori di significato della comunicazione verbale.

Traslando questi concetti alla comunicazione scritta, che ha avuto un boom nella forma prima degli SMS (Short Message Service) poi sulle varie piattaforme dei social network, è evidente che i semplici messaggi di testo non avrebbero potuto sopravvivere a lungo in modalità basic.

E se siti quali Instagram hanno da subito fatto delle immagini il loro cavallo di battaglia e il principale mezzo di comunicazione, per tutti gli altri social network, e a maggior ragione per i messaggi di testo via SMS o whatsapp, si è assistito nel tempo all’inarrestabile boom delle emoji.

Certo, le faccine sorridenti e i disegnini naive, non sono così efficaci da vicariare l’interazione del faccia a faccia di un incontro reale o anche virtuale, come quello di una videochiamata. Ma di fatto, che le emoji sono entrate di prepotenza nella quotidianietà della messaggistica e non accennano a tramontare. Anzi, il loro repertorio si arricchisce e si amplia periodicamente.

Gli antenati delle emoji sono le emoticon, nate negli anni ’80 come ‘faccine’ disegnate con i segni di interpunzione (come lo smile 🙂 o la faccina arrabbiata 🙁 ). Solo negli anni ’90 un’azienda giapponese inventa le emoji, i pittogrammi colorati destinati ai telefoni cellulari. E oggi, a distanza di una ventina d’anni, si calcola che ad usarle sia oltre il 90% della popolazione.

Una fonte di informazione preziosa dunque e sebbene le ricerche sull’uso di emoticon/emoji sia ancora agli albori, gli esperti ritengono che siano strumenti preziosi per sondare la personalità dei loro utilizzatori. Una data base sterminato insomma alla portata di tutti, vista l’accessibilità di molte piattaforme online, e la possibilità di esplorare il comportamento umano attraverso la lente della contemporaneità.

“Lavori pionieristici sull’analisi cognitiva delle emoticon – scrivono le tre psicologhe – rivelano che possono servire come utili forme di comportamento non verbale, oltre a rivelare nuovi aspetti dei meccanismi cognitivi e neurali coinvolti nella comunicazione digitale.” Alcuni studi ad esempio sono andati alla ricerca dei neurocorrelati delle frasi infiocchettate di emoticon per capire quali regioni cerebrali siano coinvolte in questa forma di comunicazione a metà tra il verbale e il non verbale. Pare che ad attivarsi siano sia il giro frontale inferiore destro, che il sinistro (quest’ultimo coinvolto soprattutto in compiti verbali).

Dal punto di vista dei rapporti interpersonali, le emoji sono eccellenti strumenti di disambiguazione, in grado ad esempio di chiarire il tono di un determinato messaggio. E per questo sono considerate un po’ alla stregua della comunicazione non verbale veicolata dai gesti o dalle espressioni del viso durante un discorso. Le emoji insomma danno quella pennellata di emozioni che si viene spesso a perdere in assenza di un’interazione faccia a faccia e forniscono agli utilizzatori una ‘tavolozza’ alla quale attingere  per chiarire l’aspetto emotivo di un concetto.

“I dati digitali – scrivono le autrici – forniscono un modo nuovo ed eccitante per riesaminare molti concetti psicologici relativi a percezione e comunicazione, comprese le espressioni emotive, la mimica emotiva, la valutazione emotiva, la pragmatica e la scoperta delle intenzioni. Facendo un’analisi comparata dei comportamenti faccia a faccia con quelli online sarà possibile stabilire se i comportamenti attuali,  come l’utilizzo delle emoji, possano essere considerati vere forme di emozione a livello neurologico e interpersonale”.

In conclusione, le interazioni virtuali sono sempre più comuni nella vita quotidiana e rappresentano una miniera di informazioni pronta per essere utilizzata da addetti ai lavori e non solo.
E l’invito ai ricercatori di tutto il mondo è dunque quello di studiare i comportamenti online della gente per cercare di svelare nuovi meccanismi in grado di migliorare la nostra comprensione del comportamento umano.


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Chi trasmette le paure ai bambini? Se un secolo di psicanalisi ha messo sul banco degli “imputati” i genitori, un nuovo studio inglese evidenzia come un ruolo importante possa essere esercitato anche dagli amici. E ci sono differenze di genere: le bambine sono meno suggestionabili.

Per valutare il “vissuto” delle paure dei bambini, un gruppo di ricercatori inglesi ha preso in considerazione una coorte di 236 bambini, 106 maschi e 136 femmine. Gli studiosi hanno fornito ai bambini – di un’età compresa tra i sette e i 10 anni – informazioni su animali dall’aspetto spaventoso e hanno valutato come si sentivano stando da soli e dopo che ne avevano parlato con gli amici. Dopo aver parlato con i piccoli amici, i bimbi tendevano a cambiare le loro opinioni per farle combaciare a quelle degli altri bambini.

“Alcuni studi mostrano che i bambini tendono a scegliere amici che hanno caratteristiche simili a loro e che possono diventare ancora più simili tramite le interazioni”, dice Jinnie Ooi, autrice principale dello studio e ricercatrice di psicologia presso la University of East Anglia nel Regno Unito. “Nel nostro studio abbiamo osservato che gli amici presentavano livelli analoghi di sintomi ansiosi e risposte alla paura ancor prima di discuterne insieme, e che dopo la discussione le paure diventavano ancora più simili”.

I bambini hanno completato questionari mirati alla valutazione dell’ansia e delle convinzioni alla base della paura. Inoltre, ai partecipanti sono state mostrate le foto di due marsupiali australiani poco conosciuti: il cuscus e il quoll. I ricercatori hanno letto ai bambini due versioni delle informazioni sugli animali; una neutra e una che descriveva questi animali come pericolosi. Gli studiosi hanno quindi valutato come si sentivano i bambini alla vista di ogni animale quando erano da soli e, successivamente, hanno chiesto loro di parlare di questi animali con gli amichetti.

Per capire come si sentissero i piccoli dopo le discussioni, i ricercatori li hanno dotati di mappe che mostravano gli animali su un sentiero e hanno chiesto loro di segnare il punto in cui avrebbero voluto essere nell’immagine. Quelli che si sono messi molto distanti dagli animali mostravano un tentativo di evitare gli animali, un chiaro indicatore di paura. Dopo aver parlato con gli amici, i bimbi tendevano ad avere risposte alla paura simili a quelle dei loro amici. Ma con differenze di genere. Quando la discussione avveniva tra due maschi, essi tendevano a presentare un notevole incremento nella paura dopo aver parlato, mentre le coppie di bimbe hanno mostrato una significativa riduzione delle convinzioni sulla paura anche quando hanno ricevuto informazioni minacciose.

”I disturbi d’ansia durante l’infanzia sono tra i problemi psicologici più comuni nei bambini preadolescenti”, ha concluso Ooi. “Il nostro studio può essere utile nel prevenire i problemi d’ansia, per esempio attraverso un lavoro nelle scuole, e per individuare schemi di trattamento in contesti clinici per disturbi legati all’ansia nell’età infantile”.

Fonte: Behaviour Research and Therapy 2016


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Assumere integratori di vitamine e minerali in gravidanza potrebbe potenziare lo sviluppo cognitivo del nascituro con effetti a lungo termine, facendogli guadagnare in termini di abilità cognitive fino a “un anno in più di intelligenza”, all’età di 9-12 anni.

E’ quanto emerso da una ricerca condotta in Indonesia, pubblicata sulla rivista Lancet Global Health e frutto di una collaborazione mondiale di istituzioni prestigiose tra cui la Harvard T.H. Chan School of Public Health a Boston.

Il lavoro ha coinvolto decine di migliaia di donne che in gravidanza avevano assunto o integratori multivitaminici o solamente ferro più acido folico (ferro folina). Dopo parecchi anni, quando i figli di queste donne avevano ormai tra i 9 e i 12 anni, le loro abilità cognitive sono state esaminate con test ad hoc.

E’ emerso che i figli di donne che avevano assunto multivitaminici in gravidanza presentavano un livello di memoria procedurale (la memoria di come si fanno le cose e di come si usano gli oggetti) maggiore rispetto a coetanei le cui mamme avevano assunto solo ferro-folina. A parità di età, il punteggio dei primi è più alto di un valore pari alla crescita mnemonica osservabile normalmente in sei mesi. Più in generale i primi avevano capacità cognitive maggiori dei coetanei le cui mamme avevano preso solo ferro folina, con differenze pari a quelle osservabili nel bambino dopo un anno scolastico.

ANSA


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Dall’inizio della stagione influenzale è ormai di oltre tre milioni il numero di italiani costretti a letto dall’influenza. Un numero raggiunto con grande anticipo rispetto allo scorso anno, quando era stato toccato a marzo.

A spiegarlo dall’ANSA è Antonino Bella, responsabile del bollettino di sorveglianza epidemiologica delle sindromi influenzali Influnet, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss). Un super lavoro per gli studi dei medici di famiglia, presso cui sono triplicate le consultazioni e le visite a domicilio.

Più aggressiva degli anni passati, l’influenza «viaggia verso il picco dei contagi, che potrebbe arrivare – spiega Bella – già per la prossima settimana». Presso gli studi dei medici di famiglia, spiega Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di Medicina Generale (Simg) «c’è stato un afflusso straordinario in breve periodo di tempo, iniziato durante le vacanze natalizie». Di fatto, precisa «in circa 2 mesi e mezzo 48mila medici si sono fatti carico di 5 milioni di persone affette da influenza o sindromi similinfluenzali e relative complicanze meno gravi. In alcuni casi facendo anche 10 visite domiciliari al giorno, il triplo rispetto al solito. E anche le consultazioni ambulatoriali sono più che triplicate».

ANSA


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La conferma delle proprietà benefiche del peperoncino arriva questa volta da uno studio americano. Il merito è forse della capsaicina, che oltre a dare il gusto del ‘piccante’, modula il circolo coronarico, sembra avere un effetto anti-obesità e forse seleziona un microbiota intestinale particolare. Necessari comunque ulteriori studi clinici per chiarire i meccanismi alla base degli effetti salutari del peperoncino

Buone notizie per gli amanti della cucina piccante. Un ampio studio realizzato dal Larner College of Medicine dell’Università del Vermont giunge infatti alla conclusione che il consumo di peperoncino si associa ad una riduzione di mortalità del 13%, soprattutto sul fronte cardiovascolare (ictus e infarti).

E’ una notizia che viene a confermare quanto già evidenziato da uno studio cinese pubblicato nel 2015 e che in qualche modo porta acqua alle credenze popolari, che si perdono nei secoli, circa un effetto salutare del peperoncino piccante nei confronti di una serie di malattie. Basandosi sulle teorie di Ippocrate e Galeno ad esempio, in epoca medievale si riteneva che le spezie potessero aiutare a ripristinare gli squilibri umorali alla base delle malattie.

La ricerca americana appena pubblicata su Plos One ha attinto ai dati del National Health and Nutritional Examination Survey (NHANES) III relativi ad oltre 16 mila cittadini americani seguiti per un periodo di 23 anni. Su questa enorme banca dati gli autori dello studio sono andati ad effettuare una selezione, in base al consumo o meno di peperoncino piccante.

L’identikit dell’amante della cucina ‘spicy’ è risultato essere maschio, bianco, giovane, messicano-americano, sposato, fumatore, consumatore di alcol, di verdure e carne, con basso colesterolo HDL, di basso reddito e non particolarmente istruito. Caratteristiche insomma non proprio da oscar della prevenzione.

Sono stati quindi esaminati dati relativi ad un follow-up di 18,9 anni relativamente alla mortalità e alle varie cause che avevano determinato i decessi. E il risultato è stato appunto quello di una netta riduzione di mortalità (-13%), in particolare da cause cardio-vascolari, nei consumatori di peperoncino.

I meccanismi attraverso i quali il peperoncino piccante esercita questo effetto protettivo sono noti, ma gli autori dello studio suppongono che un certo ruolo potrebbe essere giocato dai canali TRP (Transient Receptor Potential), che fungono da recettori per le sostanze piccanti, quali la capsaicina (contenuta nel peperoncino). L’attivazione del TRP tipo 1 vanilloide (TRPV1) sembra in grado di stimolare una serie di meccanismi cellulari anti-obesità, intervenendo sul catabolismo lipidico e sulla termogenesi.

Sono state prodotte evidenze scientifiche a favore di un’azione benefica della capsaicina nel prevenire l’obesità, l’ipercolesterolemia (attraverso un aumento del metabolismo dei lipidi), il diabete di tipo 2 e l’ipertensione. Questa sostanza contenuta nel peperoncino interverrebbe inoltre nella modulazione del flusso coronarico; senza contare le sue proprietà anti-batteriche, che secondo gli autori potrebbero contribuire a selezionare un microbiota intestinale particolare, oltre che a proteggere dall’Helicobacter pylori e da altri funghi e batteri.

“I risultati del nostro studio – concludono gli autori – confermano quanto già evidenziato da studi precedenti, ovvero gli effetti favorevoli per la salute del peperoncino e del cibo piccante. Il consumo di questi cibi potrebbe dunque entrare nelle raccomandazioni dietetiche, mentre queste osservazioni dovrebbero portare ad organizzare ulteriori ricerche, anche sotto forma di trial clinici, per chiarire i meccanismi alla base di questi effetti”.


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