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I sessantenni sono avvisati: avere un alto indice di massa corporea può essere collegato, anni dopo, a maggiori segni di invecchiamento cerebrale. Insieme alla circonferenza della vita più grande del normale, infatti, questa condizione può accelerare la degenerazione di almeno un decennio.

E’ quanto emerge da uno studio pubblicato dall’Università di Miami su Neurology, la rivista dell’Accademia americana di neurologia. La ricerca ha coinvolto per 6 anni 1.289 persone con un’età media di 64 anni.

Chi aveva un indice di massa corporea più elevato aveva anche una corteccia cerebrale più sottile, anche dopo che i ricercatori hanno posto sotto i riflettori tutti quei fattori che potrebbero influenzare lo sviluppo della corteccia, come l’ipertensione, l’uso di alcol e il fumo.

Nelle persone in sovrappeso, ogni aumento di unità di indice di massa corporea è stato associato a una corteccia più sottile di 0,098 millimetri. Situazione peggiore, invece, per le persone obese: la corteccia era diventata più sottile di 0,207 mm.

Gli studiosi hanno anche notato come la corteccia più sottile è stata legata anche ad un aumentato rischio di malattia di Alzheimer. 


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Uno studio americano ha fotografato cosa accade nel cervello umano dopo una notte insonne. E i risultati dovrebbero far riflettere e invogliare a coltivare una migliore igiene del sonno, a cominciare dal numero di ore trascorse a dormire. Dopo una notte insonne il cervello si carica di beta-amiloide, un prodotto di scarto del metabolismo, caratteristico anche della malattia di Alzheimer, che ‘inceppa’ il normale funzionamento del cervello.

Dormire poco e perdere ore di sonno fa male alla salute, sotto tanti aspetti. Nessuno però aveva finora pensato di andare a vedere se la deprivazione acuta di sonno potesse lasciare tracce visibili a livello del cervello umano. A colmare questa lacuna ci ha pensato uno  studio pubblicato su PNAS e siglato da ricercatori dei National Institutes of Health americani in collaborazione con i loro colleghi della Yale University.

I ricercatori americani sono andati a studiare gli effetti della deprivazione acuta di sonno sulla clearance cerebrale della beta-amiloide (una sorta di ‘rifiuto’ del metabolismo). Allo studio hanno preso parte 20 volontari sani studiati con questa indagine strumentale dopo una notte di sonno ristoratore  e dopo una notte insonne.

I ricercatori hanno dimostrato che basta una notte ‘in bianco’ per far aumentare in maniera significativa il carico di beta-amiloide (considerato un fattore di rischio per Alzheimer) a livello della parte destra dell’ippocampo e del talamo. Queste alterazioni organiche si associano ad un peggioramento dell’umore, ma non sono risultate correlate al rischio genetico (il cosiddetto genotipo APOE) di malattia di Alzheimer.

Gli autori dello studio hanno anche rilevato che il carico basale di beta-amiloide, in una serie di regioni corticali e nel precuneo, risultava inversamente associato alle ore di sonno riferite.
Anche il genotipo APOE risulta correlato al carico di beta-amiloide subcorticale e questo, secondo gli autori, suggerisce che i diversi fattori di rischio per malattia di Alzheimer potrebbero influenzare in maniera indipendente il carico di beta-amiloide nelle regioni vicine.

Questi risultati insomma dimostrano che anche una sola notte ‘in bianco’ lascia dei segni a livello del cervello (l’accumulo di beta-amiloide in regione implicate nella malattia di Alzheimer) e arricchisce di un nuovo tassello il filone di studi che hanno dimostrato un maggior accumulo di beta-amiloide nel cervello delle persone con un debito cronico di sonno.

E visto che un maggior carico di beta-amiloide a livello cerebrale si associa ad alterazioni del funzionamento del cervello, qualunque strategia volta ad evitare l’accumulo di beta-amiloide, appare la benvenuta come mezzo per prevenire l’Alzheimer e per promuovere il cosiddetto ‘healthy brain aging’.


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Assicurare a pazienti e familiari tutta l’informazione e l’assistenza necessarie per utilizzare questa opportunità e un centro per il monitoraggio 24 ore su 24, 7 giorni su 7, al quale rivolgersi quando il proprio caro dovesse smarrirsi. E’ ciò che prevede il protocollo firmato dall’Assessorato regionale al Diritto alla salute, dalla Prefettura di Firenze, dall’AIMA e da Penelope onlus.

Dotare i pazienti con disturbi cognitivi da Alzheimer di un semplice dispositivo GPS per localizzarli in caso di smarrimento e consentire ad una centrale operativa di rintracciarli e soccorrerli. Assicurare a pazienti e familiari tutta l’informazione e l’assistenza necessarie per utilizzare questa opportunità e un centro per il monitoraggio 24 ore su 24, 7 giorni su 7, al quale rivolgersi quando il proprio caro dovesse smarrirsi. E’ ciò che prevede per grandi linee un protocollo, il primo di questo genere, firmato lo scorso 2 febbraio dall’Assessorato regionale al Diritto alla salute della Regione Toscana, dalla Prefettura di Firenze, dall’AIMA – Associazione Italiana Malattia di Alzheimer e da Penelope onlus.

L’apparecchio, che potrà essere indossato dalla persona con decadimento cognitivo, sarà messo a disposizione gratuitamente e affidato in comodato d’uso a pazienti e familiari, che dovranno limitarsi esclusivamente a dotarsi di una sim card per il suo funzionamento. In caso di smarrimento, i familiari potranno avvertire un centro di monitoraggio, attivo h24, in grado di localizzare la persona scomparsa e di attivarne la ricerca con l’intervento delle forze di polizia, coordinate dalla Prefettura, e del servizio sanitario.

Le difficoltà di orientamento, a partire dalle prime fasi del decadimento cognitivo collegato ad una demenza rappresentano, come è noto, un rischio non irrilevante, e contribuiscono a rendere più pesante l’impatto sociale della malattia. L’incapacità di ritrovare la strada di casa, o di sapere esattamente dove ci si trova, può mettere a rischio l’incolumità di queste persone, talvolta anche la vita, oltre che la serenità delle loro famiglie. Le tecnologie possono rappresentare, quindi, un aiuto importante.

App, bracciali, orologi ed etichette che utilizzano il sistema di localizzazione GPS offrono ormai una vasta gamma di possibilità per la protezione di pazienti con decadimento cognitivo, e possono essere scelti in maniera da tenere massimamente presenti le esigenze della persona e dei familiari, comprese le garanzie di sicurezza rispetto alla necessità che questi strumenti siano costantemente indossati.

Tra gli elementi qualificanti del protocollo, la collocazione dell’utilizzo della tecnologia GPS all’interno del percorso di presa in carico del paziente e della relazione con caregiver e familiari. E’ prevista una valutazione di appropriatezza d’intesa, laddove possibile, con lo stesso paziente e nel massimo rispetto della sua privacy, oltre che con i caregiver. L’assegnazione di un dispositivo di geolocalizzazione non può prescindere, infatti, dalla valutazione attenta delle capacità e dei bisogni della persona, anche in relazione alla qualità della rete che lo ha preso in carico. Su questi aspetti è necessaria, inoltre, la massima chiarezza su finalità, valore e limiti dello strumento e del suo utilizzo, che vanno condivisi con i caregivers.

Non a caso il protocollo è stato firmato a breve distanza dalla adozione da parte della Regione Toscana di un piano regionale contro le demenze, e si inserisce a pieno titolo nelle politiche messe a punto per contrastare l’elevato impatto sociale di questa malattia. Il piano concentra la propria attenzione, tra l’altro, sulla presa in carico integrata del paziente e della sua famiglia e sull’organizzazione di una rete socio-sanitaria integrata di sostegno. Tra gli obiettivi, la creazione di una rete di servizi che non lascino mai soli paziente e familiari, e la crescita della consapevolezza della comunità sulle demenze e sul loro impatto sociale.

In Toscana i casi di demenza sono circa 86 mila, 23 mila dei quali in provincia di Firenze, mentre i pazienti con Alzheimer sono 47 mila.


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Bere un paio di bicchieri di vino al giorno, non solo riduce il rischio di malattie cardiovascolari e tumori, ma può anche aiutare a ‘ripulire la mente’, aiutando il cervello a eliminare le tossine, comprese quelle associate alla malattia di Alzheimer.

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports aiuta a spiegare quanto precedenti ricerche hanno dimostrato, ovvero che una moderata assunzione di alcol è associata a un minor rischio di declino cognitivo, mentre bere pesantemente lo aumenta.

condurlo, ricercatori dell’Università di Rochester Medical Center (URMC) che in passato avevano descritto il funzionamento del sistema glinfatico, ovvero il processo di pulizia del cervello, attraverso il quale il liquido cerebrospinale viene pompato nel tessuto cerebrale e permette di eliminare tossine, comprese le proteine beta amiloide e tau, associate con l’Alzheimer. In seguito, lo stesso team aveva mostrato che il sistema glinfatico è più attivo mentre dormiamo, può essere danneggiato da ictus e traumi e migliora con l’esercizio.

Ora, con un nuovo studio condotto su topi ha esaminato l’effetto dell’alcol. Studiando il cervello di animali esposti ad alti livelli di alcol per un lungo periodo di tempo, i ricercatori hanno osservato che negli astrociti, cellule chiave nella regolazione del sistema glinfatico, presentavano alti livelli di un marcatore molecolare per l’infiammazione. E questo era collegato a ridotte capacità cognitive e motorie. In topi esposti a bassi livelli di consumo di alcol, pari a circa 2 bicchieri al giorno, invece, il sistema glinfatico era più efficiente nel rimuovere i rifiuti rispetto agli animali non esposti. Inoltre i livelli di infiammazione cerebrale erano inferiori.

ANSA


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Avere un buon livello d’istruzione, non fumare e conservare l’udito sono i tre fattori chiave per cercare di prevenire la demenza senile. L’istruzione consente al cervello di contrastare il declino cognitivo, non fumare garantisce una migliore salute cardiovascolare e un buon udito permette di sperimentare nuovi ambienti.

Apprendere nuove cose, mangiare e bere in modo sano, non fumare, evitare la solitudine, salvaguardare l’udito; sono alcuni dei fattori che permetterebbero di prevenire almeno un terzo dei casi di demenza.  Lo sostiene un gruppo di 24 esperti internazionali ai quali la rivista scientifica The Lancet ha commissionato un’ampia e accurata analisi dei fattori di rischio che sono dietro alla demenza. Gli esperti ne hanno evidenziato nove come particolarmente importanti: proseguire l’istruzione oltre i 15 anni, ridurre la pressione arteriosa, l’obesità e la perdita dell’udito, ridurre il fumo, combattere la depressione, evitare la sedentarietà, l’isolamento sociale e il diabete.

“Anche se la demenza viene diagnosticata in una fase più avanzata della vita, i cambiamenti cerebrali di solito iniziano a svilupparsi molti anni prima – dice Gill Livingstone, professore dell’University College di Londra – Un approccio più ampio alla prevenzione della demenza rispetto a questi fattori di rischio potrebbe aiutare la società che invecchia a prevenire il crescente numero di casi di demenza”.

Il quadro della situazione
Le più recenti stime dell’Alzheimer’s Association International rilevano che circa 47 milioni di persone nel mondo vivono con una demenza e il costo delle malattie neurodegenerative  si aggira attorno agli 818 miliardi di dollari all’anno. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il numero delle persone coinvolte sarà quasi tiplicato nel 2050, arrivando a 131 milioni di pazienti.

I ricercatori hanno scoperto che il 35% di tutti i casi di demenza potrebbe essere prevenuto. Occorre lavorare su tre aspetti fondamentali: aumentare il grado di istruzione, smettere di fumare e ridurre la perdita dell’udito. Non completare l’istruzione secondaria, secondo i ricercatori, può rendere meno resilienti le persone al declino cognitivo quando invecchiano e preservare l’udito può aiutare le persone a sperimentare ambienti più ricchi e stimolanti, costruendo così una riserva cognitiva.

Smettere di fumare riduce l’esposizione alle sostanze neurotossiche e migliora la salute del cuore, che a sua volta influenza la salute del cervello.

Fonte: Lancet


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Se i neuroni che formano l’area tegmentale ventrale, una delle principali zone del cervello in cui viene prodotta la dopamina, muoiono, ci si ammala di Alzheimer.

A rivelarlo uno studio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma in collaborazione con Irccs Santa Lucia e Cnr.

La dopamina è un neurotrasmettitore indispensabile per il buon funzionamento dell’ippocampo, struttura cerebrale da cui dipende la memoria. Scoperto anche il legame tra l’assenza di dopamina e le disfunzioni dell’area neuronale coinvolta nei disturbi della gratificazione e dell’umore. La depressione, quindi, non sarebbe conseguenza della patologia, ma un potenziale segnale della sua insorgenza.

La morte dell’area del cervello che produce la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per alcuni importanti meccanismi di comunicazione tra i neuroni, sarebbe la causa dell’Alzheimer.  Questa patologia, solo in Italia, colpisce circa mezzo milione di persone oltre i 60 anni di età. La sorprendente scoperta arriva da un’équipe di ricercatori coordinati dal professor Marcello D’Amelio, associato di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Lo studio, appena pubblicato sulla rivista Nature Communications e al quale hanno collaborato altri scienziati dei laboratori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, della Fondazione IRCCS Santa Lucia e del CNR di Roma, getta una luce nuova su questa grave patologia.

“Abbiamo effettuato un’accurata analisi morfologica del cervello – ha spiega Marcello D’Amelio – e abbiamo scoperto che quando vengono a mancare i neuroni dell’area tegmentale ventrale, che producono la dopamina, il mancato apporto di questo neurotrasmettitore provoca il conseguente malfunzionamento dell’ippocampo, anche se tutte le cellule di quest’ultimo restano intatte”.

Senza la dopamina si perde la memoria
Negli ultimi 20 anni i ricercatori si sono focalizzati sull’area da cui dipendono i meccanismi del ricordo, ritenendo che fosse la progressiva degenerazione delle cellule dell’ippocampo a causare l’Alzheimer. Le analisi sperimentali, tuttavia, non hanno mai fatto registrare al suo interno significativi processi di morte cellulare. Nessun ricercatore aveva finora pensato che potessero essere coinvolte altre aree del cervello nell’insorgenza della patologia. “L’area tegmentale ventrale – ha continuato il professore – non era mai stata approfondita nello studio della malattia di Alzheimer, perché si tratta una parte profonda del sistema nervoso centrale, particolarmente difficile da indagare a livello neuro-radiologico”.

I protagonisti della ricerca sono riusciti a chiarire i dettagli molecolari alla base della mancata comunicazione fra cellule nervose che, nel tempo, porta alla perdita di memoria. I ricercatori si sono resi conto che – come in un effetto domino – la morte delle cellule cerebrali deputate alla produzione di dopamina provoca il mancato arrivo di questa sostanza nell’ippocampo, causandone il ‘tilt’ che genera la perdita di memoria. Lo studio ha evidenziato, già nelle primissime fasi della malattia, la morte progressiva dei soli neuroni dell’area tegmentale ventrale e non di quelli dell’ippocampo. Questo meccanismo è risultato perfettamente coerente con le descrizioni cliniche della patologia di Alzheimer fatte dai neurologi.

La sperimentazione in laboratorio 
Un’ulteriore conferma della scoperta è stata possibile somministrando in laboratorio, su modelli animali, due diverse terapie: una con L-Dopa, un amminoacido precursore della dopamina; l’altra basata su un farmaco che ne inibisce la degradazione. In entrambi i casi, dopo aver iniettato il rimedio si è registrato il recupero completo della memoria, in tempi relativamente rapidi.

L’assenza di dopamina influisce anche sul buon umore
“Abbiamo verificato – ha chiarito D’Amelio – che l’area tegmentale ventrale rilascia la dopamina anche nel nucleo accumbens, l’area che controlla la gratificazione e i disturbi dell’umore, garantendone il buon funzionamento. Per cui, con la degenerazione dei neuroni che producono dopamina, aumenta anche il rischio di andare incontro a progressiva perdita di iniziativa, indice di un’alterazione patologica dell’umore”. Questi risultati confermano le osservazioni cliniche secondo cui, fin dalle primissime fasi di sviluppo dell’Alzheimer, accanto agli episodi di perdita di memoria i pazienti riferiscono un calo nell’interesse per le attività della vita, mancanza di appetito e del desiderio di prendersi cura di sé, fino ad arrivare alla depressione.

La depressione è un campanello di allarme
Secondo gli autori della ricerca, i cambiamenti nel tono dell’umore non sarebbero – come si credeva fino ad oggi – una conseguenza della comparsa dell’Alzheimer, ma potrebbero rappresentare piuttosto una sorta di campanello d’allarme dietro il quale si nasconde l’inizio subdolo della patologia. “Perdita di memoria e depressione – ha sottolineato D’Amelio – sono due facce della stessa medaglia”.

Alzheimer e Parkinson: obiettivo comune per la cura
Le prospettive che questo studio schiude sono molteplici. “Il prossimo passo – ha aggiunto il docente che ha coordinato tutta la sperimentazione – dovrà essere la messa a punto di tecniche neuro-radiologiche più efficaci, in grado di farci accedere ai segreti custoditi nell’area tegmentale ventrale, per scoprirne i meccanismi di funzionamento e degenerazione. Inoltre, i risultati ottenuti suggeriscono di non sottovalutare i fenomeni depressivi nella diagnosi di Alzheimer, perché potrebbero andare di pari passo con la perdita della memoria. Infine, poiché anche il Parkinson è causato dalla morte dei neuroni che producono la dopamina, è possibile immaginare che le strategie terapeutiche future per entrambe le malattie potranno concentrarsi su un obiettivo comune: impedire in modo ‘selettivo’ la morte di questi neuroni”.

I dati sperimentali hanno chiarito anche perché i farmaci cosiddetti “inibitori della degradazione della dopamina” – la cui validità terapeutica è stata nel tempo molto discussa – si rivelino utili solo per alcuni pazienti: funzionano unicamente nelle fasi iniziali della malattia, quando ancora sopravvive un buon numero di neuroni dell’area tegmentale ventrale. Con la morte di tutte le cellule di quest’area, la dopamina smette del tutto di essere prodotta e il farmaco, ovviamente, non è più efficace. “L’altra sostanza somministrata in laboratorio nel corso della sperimentazione, chiamata L-Dopa –  ha specificato Annalisa Nobili, prima firma dello studio – non può essere data ai pazienti se non nelle ultime fasi della malattia perché, come emerso anche nei casi di Parkinson, provoca fenomeni di particolare tossicità che possono aggravare le loro condizioni”.

Pur essendo, dunque, ancora lontana la validazione di una cura efficace per l’Alzheimer, i risultati della ricerca condotta dal professor D’Amelio e dagli altri partner scientifici aggiungono un tassello decisivo nella comprensione dei meccanismi da cui prende avvio questo temibile morbo. Accorciando, si spera, i tempi che separano la Scienza dal giorno in cui sarà finalmente possibile fermarlo.


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L’Alzheimer potrebbe essere favorito da troppo zucchero nel sangue: infatti uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports mostra che l’eccesso di zucchero (iperglicemia) disattiva nel cervello un enzima protettivo importante per difendere le cellule nervose da danni e proteine tossiche.

Secondo quanto riferito dall’autore dello studio Jean van den Elsen dell’Università di Bath (GB), la disattivazione di questo enzima – chiamato MF – potrebbe rappresentare un momento critico nelle primissime fasi di sviluppo dell’Alzheimer, una specie di molla che dà il via alla malattia.

Non è la prima volta che si lega la demenza senile a problemi come il diabete o l’obesità; talora alcuni scienziati hanno addirittura soprannominato l’Alzheimer “diabete del cervello”, proprio a voler evidenziare una connessione. Nello studio britannico gli esperti hanno visto che, in effetti, a lungo andare l’eccesso di zucchero nel sangue porta a reazioni tossiche nel cervello (“glicazione”) che disattivano l’enzima protettivo, MF, impedendogli di svolgere il proprio lavoro.

ANSA


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Solo dalla Finlandia, patria incontrastata della sauna poteva provenire uno studio di questo tipo. Che è tuttavia serissimo, condotto su un vasto numero di soggetti e per un arco temporale lunghissimo. Un gruppo di ricercatori dell’Università della Finlandia Orientale, dopo aver dimostrato che la sauna protegge il cuore dall’infarto e fa vivere più a lungo, torna a pubblicare su Age and Ageing dati che dimostrano come la sauna eserciti un importante effetto protettivo anche sul cervello. Chi fa di frequente la sauna insomma fa meno infarti ed ha un rischio di sviluppare una forma di demenza inferiore del 66% rispetto ai non entusiasti della cabina di legno con i carboni bollenti.

Fare di frequente la sauna protegge dal rischio di demenza. Lo ha stabilito uno studio realizzato dall’Università della Finlandia Orientale.

E a dimostrazione che non si tratti di un ‘promo’ per questa pratica così amata dai finlandesi, ma di uno studio scientifico in piena regola (pubblicato su Age and Ageing) lo dimostra anche la durata delfollow-up, che ha superato i 20 anni. In questo lungo lasso temporale, i maschi habitué della sauna (da 4 a 7 volte a settimana) hanno presentato un rischio di demenza ridotto di ben il 66% rispetto a chi in sauna si affaccia appena una volta a settimana.

Questa osservazione è stata fatta nell’ambito del Kuopio Ischaemic Heart Disease Risk Factor Study (KIHD), uno studio di popolazione prospettico che ha coinvolto oltre duemila uomini di mezz’età residenti nella parte orientale della Finlandia. In base alle loro abitudini di sauna i partecipanti sono stati divisi in tre gruppi: i ‘patiti’ (4-7 saune a settimana), i ‘tiepidi’ (1 sauna a settimana) e gli ‘intermedi’ (2-3 saune a settimana).

Andando a tirare le somme del rischio di demenza alla fine dei 20 anni di follow-up ne scaturisce che gli aficionados della sauna presentano un rischio di demenza inferiore del 66% rispetto ai ‘tiepidi’ e un rischio di Alzheimer inferiore del 65%.

Ma la sauna non fa bene solo al cervello; in passato l’analisi dei dati dello studio KIHD ha rivelato che chi fa molte saune presenta anche un ridotto rischio di morte cardiaca improvvisa, di mortalità in generale, di coronaropatie e di altri eventi cardiaci.

Secondo gli autori dello studio la sauna avrebbe insomma un effetto protettivo sia sul cuore che sulla memoria grazie a dei meccanismi condivisi ma ancora in gran parte inesplorati. “Di certo – riflette il coordinatore dello studio, il Professor Jari Laukkanen – la salute cardiovascolare ha importanti ripercussioni sul cervello. E anche il senso di benessere e di relax che la sauna regala possono giocare un ruolo in questo senso.”


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I fermenti lattici potrebbero divenire un’arma preziosa per contrastare la progressione del deficit cognitivo causato dalla malattia di Alzheimer: una sperimentazione clinica su 52 pazienti con morbo di Alzheimer ha dimostrato che i fermenti lattici possono migliorare le funzioni cognitive dei pazienti in 12 settimane con effetti moderati ma significativi.

Pubblicata sulla rivista Frontiers in Aging Neuroscience, la ricerca è stata condotta in doppio cieco (pazienti divisi in gruppo placebo e gruppo trattato e non al corrente di cosa assumevano come pure gli sperimentatori) presso la Università Kashan, e la Islamic Azad University di Tehran e si tratta di una “prima assoluta” sull’uomo. In passato numerosi studi su animali hanno dimostrato che i probiotici (i fermenti) migliorano l’umore, combattono depressione e disturbo ossessivo compulsivo e migliorano capacità di apprendimento e memoria. Tanto che si è cominciato a parlare di asse flora batterica intestinale-cervello proprio per intendere l’influenza che i batteri intestinali hanno sulla salute e funzionalità del cervello.

In questo lavoro 52 pazienti con Alzheimer hanno assunto o 200 ml di latte al dì arricchito con quattro fermenti (Lactobacillus acidophilus, L. casei, L. fermentum, Bifidobacterium bifidum), o latte normale. Le capacità cognitive dei pazienti sono state testate con una batteria di test ad hoc (un esame classico in uso clinico per misurare le funzioni cognitive dei malati di Alzheimer) sia all’inizio dello studio, sia dopo 12 settimane di “terapia” con i fermenti.

Ebbene, è emerso che il punteggio (sulla scala usata per misurare le funzioni cognitive) è aumentato per i pazienti che hanno assunto probiotici, mentre nello stesso arco di tempo il gruppo di controllo che ha bevuto solo latte ha perso punti sulla stessa scala. L’effetto è quantitativamente moderato ma significativo. I ricercatori continueranno lo studio coinvolgendo un maggior numero di pazienti.

ANSA


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