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I bambini che piangono di più? Sono italiani, inglesi e canadesi. E anche gli olandesi non scherzano. I piccoli con gli occhi più asciutti abitano in Danimarca, Germania e Giappone. Questa originale classifica emerge da una ricerca britannica pubblicata dal Journal of Pediatrics

Un gruppo di ricercatori britannici ha condotto una metanalisi di studi che comprendono 8.700 bambini in Paesi quali Germania, Danimarca, Giappone, Canada, Italia, Paesi Bassi e Gran Bretagna.

La ricerca
I più alti livelli di colic (così è definito un pianto che duri più di tre ore al giorno, per almeno tre giorni alla settimana) sono stati registrati tra i bambini britannici, canadesi e italiani, mentre quelli più bassi sono stati riscontrati nei bambini danesi e tedeschi. Lo studio ha rilevato che in media i bambini si agitano o piangono per circa due ore al giorno nelle prime due settimane di vita.

Nelle settimane successive si agitano e piangono un po’ di più, fino ad un picco di circa due ore e 15 minuti al giorno a sei settimane di vita. Il. pianto si riduce poi a una media di un’ora e 10 minuti al giorno, quando i neonati raggiungono le 12 settimane di vita. Ma ci sono ampie variazioni, con alcuni bambini che piangono appena 30 minuti al giorno e altri più di cinque ore.

“I bambini sono già molto diversi tra loro per quanto riguarda il pianto nelle prime settimane di vita – dice Dieter Wolker, che ha condotto lo studio presso l’Università di Warwick – Possiamo imparare molto osservando le culture in cui si piange meno cercando di capire se questo può essere dovuto ai genitori, alla genetica o ad altri fattori relativi a esperienze avvenute durante la gravidanza”.

Kate Kelland

Fonte: J Pediatr 2017


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Un uomo di 53 anni, tetraplegico in seguito ad un incidente, è stato sottoposto ad impianto di elettrodi cerebrali nell’area motoria e di sensori stimolanti i muscoli in diverse aree di braccio e avambraccio. Il sistema, collegato attraverso un computer esterno dotato di uno speciale algoritmo, ha consentito all’uomo di ‘pensare’ il movimento e di agirlo; prima con un training di realtà virtuale, poi realmente, permettendogli di mangiare e bere da solo

Un uomo tetraplegico è tornato a mangiare e bere da solo grazie ad una innovativa neuroprotesi che ricollega il suo cervello ai suoi muscoli. Questo è reso possibile da uno strumento che decodifica i segnali nervosi per poi trasmetterli a speciali sensori posizionati sul braccio.

Grazie a questa protesi intelligente, un uomo tetraplegico, si legge in un articolo pubblicato su Lancet, quest’uomo è riuscito a recuperare i movimenti del braccio e della mano, tanto da consentirgli di mangiare e di bere da solo.

Sebbene ancora in fase preliminare (la neuroprotesi è stata testata per ora solo su un individuo), questo studio rappresenta un eccezionale passo in avanti in questo campo. Le ricerche si sono concentrate finora sul come riparare il danno nervoso nei soggetti paralizzati per una lesione spinale; questa tecnologia, utilizzata per ora solo in fase sperimentale negli USA, tenta invece di by-passare il problema, fornendo un collegamento cervello-muscoli attraverso questo device.

“Siamo ancora in uno stadio preliminare – ha commentato Bolu Ajiboye, Case Western Reserve University, USA – ma riteniamo che questa neuro-protesi possa offrire ai soggetti paralizzati la possibilità di riacquisire la funzionalità delle braccia e delle mani, consentendo loro in questo modo di svolgere le normali funzioni della vita quotidiana. Finora siamo riusciti ad aiutare un uomo tetraplegico a raggiungere e afferrare un oggetto, attività che gli consentono di mangiare e di bere da solo. Riteniamo tuttavia che affinando questa tecnologia si possa arrivare a consentire un controllo dei movimenti più fine ed accurato che consentirebbe di svolgere un range di azioni molto più vasto, trasformando in questo modo la vita di queste persone”.

L’uomo che ha sperimentato per primo al mondo questa neuroprotesi ha 53 anni ed è tetraplegico da 8 anni. L’impianto della neuroprotesi comporta un intervento chirurgico per impiantare dei sensori a livello cerebrale, in corrispondenza dell’area motoria responsabile del movimento delle mani; è stata creata quindi un’interfaccia cervello-computer che ha ‘imparato’ a quali movimenti corrispondevano i segnali che il suo cervello inviava. Per completare questo primo stadio ci sono voluti 4 mesi e per l’addestramento del paziente è stato utilizzato un braccio di realtà virtuale.

Successivamente il paziente è stato sottoposto all’impianto di 36 elettrodi per stimolare i muscoli del braccio e dell’avambraccio, che sono stati accesi 17 giorni dopo la procedura. I ricercatori americani sono dunque passati a stimolare questi muscoli 8 ore a settimana per un totale di 18 settimane, al fine di migliorare forza e tono muscolare e di ridurre l’affaticamento muscolare.

Per ultimo è stata collegata l’interfaccia cervello-computer agli elettrodi stimolatori del braccio utilizzando un algoritmo matematico in grado di tradurre i segnali cerebrali in comandi per gli elettrodi sul braccio. Gli elettrodi così stimolati hanno prodotto delle contrazioni muscolari e il paziente grazie a questo ha potuto completare intuitivamente i movimenti che pensava di compiere.

“Riesco a muovere il braccio – ha affermato il paziente – senza dovermi concentrare troppo intensamente, Mi basta pensare ‘vai’ e quello si muove”.

A distanza di 12 mesi dall’impianto della neuro protesi, al paziente è stato chiesto di tentare di compiere dei gesti di routine quotidiana, quali bere una tazza di caffè e mangiare da solo. Prima ha osservato il suo braccio compiere queste azioni sotto controllo del computer; quindi è stato il suo turno di pensare di compiere lo stesso movimento, di modo che il sistema potesse riconoscere i segnali cerebrali corrispondenti. I due sistemi, uomo e computer, sono stati quindi collegati e il paziente è riuscito a bere una tazza di caffè da solo e a mangiare con una posata. 11 tentativi su 12 sono andati a buon fine e gli ci sono voluti ogni volta 20-40 secondi per completare l’operazione.

“Il nostro sistema – afferma Ajiboye – si basa su questa tecnologia ad elettrodi stimolanti , già disponibile e continuerà a perfezionarsi con lo sviluppo di nuove interfacce cervello-computer wireless e completamente impiantate. Questo porterà a migliorare le performance della neuro-protesi facendo guadagnare in velocità, precisione e controllo”.

“Si tratta di uno studio importantissimo – sottolinea in un editoriale pubblicato sullo stesso numero Steve Perlmutter, University of Washington, USA – è infatti il primo report di una persona che riesce ad eseguire dei movimenti funzionali, coinvolgenti diverse articolazioni di un arto paralizzato, grazie ad una neuro-protesi motoria. Certo, i movimenti sono ancora rozzi e rallentati e richiedono un continuo feedback visivo; è stato inoltre necessario dotare il paziente di un device motorizzato per assistere i movimenti della spalla. Ciò significa che questo studio rappresenta una prova di principio di cosa sia possibile fare, piuttosto che un significativo passo avanti nel campo delle neuro-protesi. Ma è comunque una dimostrazione molto interessate che rende più luminosa la speranza che in futuro una neuroprotesi possa vincere la paralisi”.


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Mangiare noccioline associandole ai pasti? Può essere un toccasana per la salute del cuore. Rende infatti più elastiche le arterie proteggendo contro lo sviluppo di malattie cardiovascolari. La quantità consigliata sono 85 grammi e devono essere non salate.

A evidenziarlo uno studio della Pennsylvania State University, pubblicato su Journal of Nutrition. «In genere, ogni volta che si mangia qualcosa, le arterie diventano un po’ più rigide durante il periodo post-pasto – spiega Penny Kris-Etherton, autrice principale della ricerca – ma abbiamo dimostrato che se si associano le arachidi ciò può aiutare a prevenire la risposta di irrigidimento». «Dopo un pasto, i trigliceridi aumentano e questo diminuisce tipicamente la dilatazione delle arterie, ma le arachidi impediscono proprio un importante aumento dei trigliceridi stessi», aggiunge.

Lo studio ha preso in esame 15 adulti sovrappeso o obesi considerati sani. I partecipanti hanno consumato arachidi non salate all’interno di un pasto nella forma di un frullato. A un gruppo di controllo è stato assegnato invece un shake simile per qualità e quantità, ma senza arachidi.

I ricercatori hanno prelevato campioni di sangue per misurare lipidi, lipoproteine e livelli di insulina dopo 30, 60, 120 e 240 minuti, mentre una macchina ad ultrasuoni è stata utilizzata per misurare il flusso sanguigno.

Secondo i risultati c’è stata una riduzione del 32 per cento nei livelli di trigliceridi in chi aveva consumato arachidi rispetto al gruppo di controllo.

ANSA


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Mangiare sano potrebbe aumentare per l’uomo le chance di concepire: l’alimentazione corretta è infatti associata a migliore qualità dello sperma, specie per quegli uomini che partono già con qualche problema di fertilità o con una qualità del seme non perfettamente nella norma.

Lo rivela uno studio su 129 maschi “in attesa” di un bebè pubblicato sulla rivista Fertility and Sterility, condotto presso la University Medical Centre di Rotterdam in Olanda.

Gli esperti hanno analizzato lo sperma dei partecipanti (concentrazione e conta degli spermatozoi, motilità) e con dei questionari ad hoc la loro dieta prima del concepimento. E’ emerso che coloro che seguivano una dieta sana (ricca di cereali integrali, legumi, frutta, olio d’oliva, povera di zuccheri e carboidrati raffinati) presentavano uno sperma migliore. Ciò è risultato vero in particolar modo per coloro che hanno avuto qualche difficoltà in più a concepire; rispetto a maschi con dieta poco corretta, presentavano sperma migliore.

Lo studio suggerisce che anche gli stili di vita e in particolare i comportamenti alimentari sono un fronte possibile di intervento per coppie che hanno problemi di concepimento, un problema in aumento in Europa e legato, spesso, proprio al maschio.

ANSA


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Due ore e mezza a settimana di esercizio fisico. Questa la “ricetta” per sperimentare un minor declino della qualità di vita e della mobilità quando si ha il Parkinson. A identificarla una ricerca condotta da un team guidato dalla Northwestern University di Chicago, pubblicata sulla rivista Journal of Parkinson’s Disease.

Gli studiosi hanno preso in esame i dati della National Parkinson Foundation Quality Improvement Initiative, uno studio internazionale e multicentrico che ha coinvolto 21 realtà tra Usa, Israele e Paesi Bassi. Oltre 3.400 partecipanti hanno fornito dati in più di due anni, con informazioni raccolte nel corso di almeno tre visite.

La mobilità è stata misurata con un test apposito, cronometrando i partecipanti man mano che si alzavano da una sedia, percorrevano tre metri, giravano e tornavano a sedersi. Come spiega Miriam R. Rafferty, prima autrice dello studio, «dai risultati è emerso che le persone con malattia di Parkinson che mantenevano 150 minuti di esercizio a settimana avevano un declino inferiore in termini di qualità di vita e mobilità nel corso di due anni rispetto a chi non faceva esercizio o ne faceva meno. Ciò è risultato valido sia per chi già si esercitava, che per chi ha iniziato a farlo all’inizio dello studio».

Un dato che ha sorpreso gli studiosi è che i benefici maggiori riguardavano le persone in stato avanzato di malattia. Non ci sono indicazioni specifiche sul tipo di esercizio migliore, si può scegliere il proprio preferito, l’importante è che la “dose” sia 150 minuti a settimana.

ANSA


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Utilizzando delle cellule staminali rese “immortali”, e dunque riutilizzabili, è possibile produrre sangue in laboratorio in una quantità sufficiente per le trasfusioni.

Lo ha dimostrato uno studio coordinato dall’università di Bristol pubblicato dalla rivista Nature Communications, secondo cui il sangue ottenuto in questo modo potrebbe essere usato per chi ha gruppi estremamente rari.

Il “sangue artificiale”, spiegano gli autori, può già essere prodotto a partire da staminali che però nel processo muoiono, rendendo impossibile ottenere quantità elevate. I ricercatori hanno sviluppato un processo che a partire da staminali adulte ottiene cellule eritroidi, quelle che fanno da precursore ai globuli rossi, capaci di replicarsi, e quindi “immortali”. Nei test di laboratorio sono stati ottenuti “litri” di globuli rossi, spiega l’autore principale alla Bbc, mentre i test di sicurezza su eventuali trasfusioni con questo “sangue artificiale” inizieranno entro l’anno, con l’obiettivo di usarli per le persone, di solito immigrati, che hanno caratteristiche del sangue come la presenza o l’assenza di proteine che rendono impossibili le trasfusioni.

«Il primo uso terapeutico di globuli rossi prodotti in questo modo» spiega David Anstee «sarà probabilmente per pazienti con gruppi sanguigni rari, per cui la donazione tradizionale può essere una fonte difficile».

ANSA


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L’utilizzo del navigatore satellitare nel terzo millennio è talmente comune che, talvolta, molti hanno la sensazione di non essere più in grado di orientarsi senza. Ebbene, potrebbe non essere solo una sensazione ma un dato di fatto, almeno secondo quanto suggerisce un esperimento pubblicato su Nature Communication

L’uso abituale dei navigatori satellitari sembra disattivare alcune regioni del cervello che potrebbero altrimenti cercare dei percorsi alternativi migliori aumentando le abilità di ricerca nella persona che sta guidando.

L’utilizzo del navigatore satellitare nel terzo millennio è talmente comune che, talvolta, molti hanno la sensazione di non essere più in grado di orientarsi senza. Ebbene, potrebbe non essere solo una sensazione ma un dato di fatto, almeno secondo quanto suggerisce un esperimento pubblicato su Nature Communication.

Lo studio

La ricerca condotta su 24 volontari reclutati dai ricercatori dell’Imperial College di Londra, ha evidenziato che quando si cerca un percorso stradale senza l’aiuto di un navigatore satellitare si attivano nel cervello alcune aree dell’ippocampo e della corteccia prefrontale che risultano come “spente” quando invece si usa il navigatore.

“Quando abbiamo a disposizione la tecnologia che ci dice da che parte andare alcune parti del cervello sembrano non rispondere alla rete stradale” – afferma Hugo Spiers del dipartimento di psicologia sperimentale dell’University College di Londra autore principale dell’esperimento. In questo senso, si può dire che il nostro cervello ha ‘spento’ il suo interesse per le strade intorno a noi”.

I ricercatori hanno aggiunto che l’uso costante di dispositivi elettronici nel lungo termine, potrebbe rendere gli utenti meno abili ad imparare nuovi percorsi in una rete stradale cittadina senza l’aiuto del navigatore. Come estensione della ricerca, gli scienziati hanno anche analizzato le reti stradali delle principali città di tutto il mondo cercando di visualizzare dei percorsi più o meno facili. E hanno visto che Londra, con la sua complessa rete di piccole strade, sembra ripercuotersi principalmente sull’attività dell’ippocampo.

Al contrario, per spostarsi in auto in città come Manhattan e New York, dove il layout della mappa di navigazione della città richiede spostamenti a destra o a sinistra, o diritti avanti e indietro, gli sforzi del cervello per imparare percorsi alternativi possono essere inferiori.

Ovvero lo studio dimostra anche come la complessità della rete stradale di una città abbia un possibile impatto sullo sviluppo delle abilità relative ad alcune funzioni cerebrali.


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Centocinquanta ore di lezioni frontali e sul campo per capire, sin dalla terza Liceo scientifico, se si sia o meno “tagliati” per affrontare la Facoltà di Medicina e la professione del medico. E’ questo lo spirito del progetto condiviso, con un Accordo Quadro firmato ieri, dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dalla Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri.

La sperimentazione didattica (che coinvolgerà venti licei scientifici distribuiti su tutto il territorio nazionale e individuati tramite un bando del Miur, oltre agli Ordini provinciali delle relative aree geografiche) nasce sulla scia di un progetto pilota già messo in atto da sette anni (sotto il coordinamento del dirigente scolastico Giuseppina Vinci e del presidente Omceo Pasquale Veneziano), con ottimi risultati in termini di gradimento e di efficacia, dal Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Reggio Calabria, che sarà la scuola capofila.

Ma in cosa consisterà, nei dettagli, il percorso? Una volta individuati i venti istituti, essi inseriranno nei loro piani di studio la nuova disciplina opzionale “Biologia con curvatura biomedica”, da svilupparsi in orario aggiuntivo e che contribuirà alla media dei voti e all’acquisizione dei crediti formativi. Gli studenti delle classi terze che manifesteranno interesse verranno inseriti nel percorso, che sarà triennale. Il monte di 50 ore annue sarà suddiviso in quaranta ore di lezioni frontali (per metà tenute dai docenti di scienze e metà da professionisti individuati dagli Ordini dei Medici e Odontoiatri) e in dieci ore “sul campo”, presso strutture sanitarie, ospedali, laboratori di analisi.

Una Cabina di Regia nazionale, della quale faranno parte anche la professoressa Vinci e Pasquale Veneziano,  eserciterà la funzione di indirizzo e di coordinamento.

“Come Area Strategica della Formazione della Fnomceo abbiamo verificato la qualità e l’efficacia scientifica del progetto calabrese quale metodo di orientamento per l’accesso alla Facoltà di Medicina – spiega Roberto Stella, che di tale Area è coordinatore -. Per ogni anno scolastico in cui è stata fatta la sperimentazione, circa la metà dei ragazzi che si erano iscritti al percorso lo hanno abbandonato, in prevalenza all’inizio del triennio di formazione. La motivazione principale è stata che hanno verificato di non avere le adeguate inclinazioni o motivazioni. E questo ha risparmiato loro anni di fatiche e di studio su una strada che non era, evidentemente, quella in cui avrebbero potuto esprimersi al meglio. Inoltre, coloro che hanno portato a termine il percorso hanno superato più facilmente i test di accesso”.


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