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La nuova tecnologia prevede che un braccio meccanico sia comandato da una consolle controllata dal cardiologo interventista, in grado di rendere i movimenti più precisi e accurati. La coronaria di un paziente di 64 anni è stata disostruita con successo per via percutanea utilizzando il sistema robotizzato.

Per la prima volta in Italia è stato eseguito un intervento di angioplastica con un robot. La coronaria di un paziente di 64 anni è stata disostruita con successo per via percutanea utilizzando il sistema robotizzato, sviluppato dal centro di ricerche del dipartimento di Cardiologia dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, con la collaborazione degli esperti del gruppo high tech CHT.

Il paziente, con precedente infarto miocardico, è stato dimesso dopo due giorni con un normale decorso post-procedura. L’intervento è stato effettuato il 22 gennaio scorso da Ciro Indolfi, Ordinario di Cardiologia, Direttore del Centro di Ricerche delle Malattie Cardiovascolari dell’Università Magna Graecia di Catanzaro e presidente della Società Italiana di Cardiologia, con l’equipe dell’Emodinamica dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Mater Domini di Catanzaro, composta da Salvatore De Rosa, Alberto Polimeni, Carmen Spaccarotella eAnnalisa Mongiardo.

Sono circa 37 mila gli interventi di angioplastica primaria effettuati ogni anno in Italia, che hanno consentito di ridurre negli ultimi anni del 50% la mortalità per infarto miocardico. Questa tecnica oggi dispone già di sistemi molto avanzati ed affidabili. L’utilizzo della robotica consentirà una ulteriore riduzione del rischio per gli operatori legato alle radiazioni ionizzanti, di effettuare interventi con precisione e, presto, anche a distanza.

“Il nostro robot – ha spiegato Indolfi – ci ha consentito di effettuare con successo e precisione tutti i passaggi dell’intervento di angioplastica. In particolare, è stata eseguita prima la dilatazione della stenosi con un palloncino entrando dall’arteria del polso e poi è stato impiantato uno stent medicato. Il sistema robotico è costituito da un braccio mobile meccanico che provvede all’avanzamento e alla rotazione delle guide metalliche, dei cateteri e degli stent con sensori eseguendo tali movimenti con sicurezza e precisione, grazie alla visione amplificata dell’area interessata, e riducendo così il rischio di errore e di recidiva”.

Il progetto di robotica coronarica, autorizzato dal comitato etico nell’ambito di un trial depositato all’ente americano ClinicalTrials.gov, effettuato con la collaborazione degli ingegneri Guido Danieli, Pasquale Greco, Gabriele Larocca e Michele Perrelli, apre nuovi scenari di una medicina tecnologica che utilizzerà in futuro nuove attrezzature ed innovazioni informatiche come l’intelligenza artificiale.

“Le malattie cardiovascolari – continua Indolfi – rimangono la prima causa di morte in Italia e pertanto una grande attenzione deve essere dedicata alle innovazioni nella diagnosi precoce e nella terapia di tali patologie. Da sempre la cardiologia è stata la branca della medicina che ha introdotto le maggiori innovazioni tecnologiche grazie alle quali la vita oggi si è allungata in modo significativo. Con questo intervento siamo all’inizio di una nuova era: la robotica è l’emblema dell’interventistica di precisione. Tra una ventina di anni si assisterà in medicina a profondi cambiamenti dei percorsi diagnostici e terapeutici”.


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L’intervento su un giovane paziente affetto da stenosi calcifica della valvola cardiaca, una sindrome congenita rarissima, è stato eseguito dall’equipe del Prof. Musumeci del San Camillo ed è il primo al mondo nel suo genere.

Eseguito all’Ospedale San Camillo – Forlanini di Roma il “primo intervento al mondo di trattamento di stenosi calcifica severa della valvola aortica per via trans-catetere su un giovane paziente affetto da una sindrome congenita rarissima. La procedura è stata eseguita con successo dall’equipe cardiochirurgica guidata dal Prof. Francesco Musumeci e coadiuvata da Prof Roberto Violini, cardiologo interventista e dal Dr. Elio D’Avino, cardio-anestesista”. A darne notizia un comunicato dell’ospedale San Camillo – Forlanini.

“L’unicità del paziente e i dettagli dell’intervento, nonché l’alto grado di complessità, avevano costretto i medici del Children’s Hospital e del Brigham and Women di Boston dove il paziente è in cura, a rinunciarvi.

“Il successo di questa procedura è una ulteriore dimostrazione dell’alto livello di professionalità e multidisciplinarietà dell’Azienda S. Camillo-Forlanini nell’ambito del trattamento delle malattie cardiovascolari, facendone uno dei Centri leader in Italia ed oltre confine”.


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Nel 2018 in Italia 2526 persone hanno avuto il morbillo, e 8 di loro sono morte.

Meno dunque del 2017, in cui erano state oltre 5300. Quasi l’80% dei casi del 2018 si è concentrato in Sicilia, Campania, Lazio, Calabria e Lombardia (di cui oltre la metà in Sicilia) e l’età media è stata di 25 anni. Quasi un quinto dei casi (488) si è avuto in bambini con meno di 5 anni, di cui 161 sotto l’anno di vita.

Lo riporta l’ultimo bollettino Morbillo & Rosolia News pubblicato dall’Istituto superiore di sanità (Iss). Quasi la metà dei malati (47%) ha avuto almeno una complicanza, di cui la più frequente è stata la stomatite, seguita da diarrea e cheratocongiuntivite. Ve ne sono state però anche di più gravi, come 252 casi di epatite, 252 di polmonite, 190 di laringo-tracheobronchite e 179 di insufficienza respiratoria. Delle otto persone morte, una era un bambino di 10 mesi, mentre gli altri erano adulti. Il 58,1% dei casi segnalati è stato ricoverato mentre un ulteriore 17,2% è andato al Pronto Soccorso.

Nel 2018, l’incidenza di casi di morbillo a livello nazionale è stata di 42 casi per milione di abitanti. Il numero dei casi negli anni mostra un andamento con picchi e cali. Complessivamente dal 2013 sono stati segnalati 13.001 casi di morbillo di cui 2.270 nel 2013, 1.695 nel 2014, 256 nel 2015, 861 nel 2016, 5.393 nel 2017 e 2.526 nel 2018. I maggiori picchi (oltre 300 casi) si sono osservati nei mesi di giugno 2013 e gennaio 2014, cui è seguito un calo nel 2015, una ripresa nel 2016, e un nuovo picco di 973 casi a marzo 2017. Dopo una progressiva diminuzione dei casi, a gennaio 2018 si è avuta una nuova ripresa della trasmissione che ha raggiunto il picco ad aprile 2018 con 468 casi per poi diminuire progressivamente fino a raggiungere 54 casi nel mese di settembre 2018, e rimanere stabile fino a dicembre 2018. Sempre nel 2018 sono stati segnalati anche 23 casi di rosolia con un’età media di 24 anni. 


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Lo chocking game è una pratica, potenzialmente letale, che consiste nell’ostruire – con mani, cinture o cravatte – la carotide interrompendo il flusso di sangue e ossigeno al cervello per poi provare un senso di euforia quando viene liberato il collo. Uno studio francese ha fatto emergere come gli adolescenti depressi corrano maggiori rischi di essere attratti da questa pratica

Gli adolescenti e i pre-adolescenti che soffrono di depressione o di problemi comportamentali possono essere più propensi alla pratica dello choking game, che consiste nel raggiungimento di un livelo euforico limitando temporaneamente l’arrivo di sangue e ossigeno al cervello attraverso la compressione della carotide. È quanto emerge da uno studio francese pubblicato da Pediatrics.

Circa uno su dieci adolescenti e pre-adolescenti hanno partecipato a questo pericoloso gioco almeno una volta, riportano i ricercatori su Pediatrics, che hanno notato come il rischio fosse più che raddoppiato nei giovani con sintomi di depressione o disturbi della condotta. “Questo gioco è letale – dice l’autore principale dello studio, Gregory Michel, ricercatore di psicologia alla University of Bordeaux –e può incuriosire i giovani depressi che vi ricorreranno per sostituire la sensazione depressiva con una forte emozione”.

Chi pratica il choking game di solito usa le mani, una cintura o una cravatta per esercitare pressione sulla carotide, limitando temporaneamente il flusso di ossigeno e sangue al cervello. L’obiettivo è raggiungere una sensazione di euforia quando il flusso di sangue e l’ossigeno si riversano nuovamente nel cervello. Si tratta di una pratica pericolosa anche in gruppo, ma lo diventa ancora di più quando i ragazzi giocano da soli, in assenza di persone che possano interrompere l’asfissia e fermare lo strangolamento. Quasi tutte le morti avvenute durante il gioco si sono verificate quando le vittime giocavano da sole.

Lo studio. I ricercatori hanno esaminato i dati raccolti da una survey che ha coinvolto 1.771 studenti delle scuole medie francesi nel 2009 e nel 2013.
Gli studenti con depressione risultavano 2,2 volte più propensi al choking game rispetto agli studenti senza depressione.
E i giovani con disturbi della condotta, come la tendenza a infrangere le regole o a comportarsi in modo antisociale, avevano 2,3 volte più probabilità di partecipare al gioco.
Mentre studi precedenti hanno riscontrato che la pratica è più diffusa tra i ragazzi adolescenti rispetto alle ragazze, l’analisi attuale non ha rilevato differenze in base al sesso.

“Gli adolescenti con depressione sono spesso annoiati e apatici e alcuni possono essere attratti da questa ricerca del brivido – osserva Benjamin Shain, responsabile di psichiatria infantile e adolescenziale presso la NorthShore University HealthSystem di Evanston , non coinvolto nello studio– Alcuni adolescenti con depressione potrebbero intendere il choking game come una prova generale per un tentativo di suicidio, altri potrebbero sviluppare problemi emotivi a causa del danno cerebrale causato dal soffocamento presente nel gioco”.

Fonte: Pediatrics 2019


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Dall’inizio della sorveglianza i casi sono 2,8 mln rispetto ai 4,7 mln della passata stagione. Colpiti soprattutto i bambini.

“Nella 3° settimana del 2019, ci si avvicina al picco epidemico stagionale. Ancora un brusco aumento del numero di casi di sindrome influenzale, soprattutto nella fascia di età pediatrica sotto i cinque anni in cui l’incidenza è passata da 16 a 28 casi per mille assistiti nell’ultima settimana. Il livello di incidenza, in Italia, è pari a 9,4 casi per mille assistiti.” È quanto riporta l’ultimo aggiornamento del bollettino Influnet curato dall’Iss.

Il numero di casi stimati in Italia in questa settimana è pari a circa 571.000, per un totale, dall’inizio della sorveglianza, di circa 2.837.000 casi. Piemonte, P.A. di Trento, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Campania e Sicilia le Regioni maggiormente colpite.

Nella fascia di età 0-4 anni l’incidenza è pari a 28,29 casi per mille assistiti, nella fascia di età 5-14 anni a 12,98 nella fascia 15-64 anni a 8,76 e tra gli individui di età pari o superiore a 65 anni a 3,97 casi per mille assistiti.

Rispetto alla scorsa stagione in ogni caso si registrano circa 2 mln di casi in meno.


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Sviluppato un minuscolo robot flessibile (così piccolo da essere definito millirobot) che può viaggiare nel corpo per trasportare i farmaci direttamente nei tessuti malati. Ispirato alla forma e al movimento dei batteri, il robot è stato sviluppato da Selman Sakar dell’Ecole Polytechnique Federale de Lausanne (EPFL) e Bradley Nelson del ETH di Zurigo.

Secondo quanto riferito online su Reuters Health, il robot è lungo pochi millimetri, può cambiare forma adattandosi al suo percorso (ad esempio i vasi sanguigni) ed è costituito da nanocomposti di idrogel, con l’aggiunta di nanoparticelle magnetiche per cui può essere guidato verso la meta di interesse per attrazione magnetica. Simili dispositivi potrebbero servire in futuro per il rilascio di farmaci nel cuore di tessuti malati, ad esempio in un tumore.


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La più famosa rimane l’appendice, ma sono molte di più le parti del corpo che ‘non servono più’.

A metterne in fila nove in una serie di tweet, poi ripresi da diversi siti statunitensi, è stata Dorsa Amir, una antropologa evoluzionista del Boston College. Questi ed altri “rifiuti dell’evoluzione”, spiega l’esperta, sono chiamati “strutture vestigiali”, e di solito sono riconducibili a funzioni non più necessarie.

È il caso del muscolo palmare lungo, che appare sul polso se si chiude la mano. “Serviva per muoversi più agevolmente sugli alberi – scrive Amir – ma ora il 14% della popolazione non ce l’ha neanche più”. Lo stesso discorso vale per il tubercolo di Darwin, un ispessimento della pelle dell’orecchio che serviva a muoverlo per capire la provenienza dei suoni prima che l’uomo sviluppasse il collo ‘superflessibile’.

Durante lo sviluppo embrionale, continua la biologa, spunta anche una coda, che poi scompare tranne in rarissimi casi, di cui il coccige è l’ultimo ‘rimasuglio’. Risale al passato anche la plica semilunare, un lembo di pelle all’interno dell’occhio che serviva da palpebra ‘orizzontale’.

Anche la pelle d’oca è un ricordo della capacità, che hanno ancora diversi animali, di drizzare il pelo per sembrare più grandi, mentre il riflesso che hanno i neonati di afferrare qualunque cosa serviva ad essere trasportati dai genitori. A queste si aggiungono le tre vestigia più ‘famose’: l’appendice, i denti del giudizio e i capezzoli maschili.


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E’ un centinaio di geni a ‘dirigere’ i depositi di grasso nel corpo: nelle donne modella i loro fianchi, rendendoli più rotondi, e le gambe, mentre negli uomini tali geni sono responsabili della pancetta.

Lo indica una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications, condotta dall’università di Uppsala su 360.000 volontari. L’influenza del Dna sul grasso è maggiore nel sesso femminile.

«Le donne accumulano il tessuto adiposo su fianchi e gambe, mentre gli uomini intorno all’addome», precisa Mathias Rask-Andersen, coordinatore dello studio. «Finora si pensava che fosse l’effetto degli ormoni sessuali, come gli estrogeni – continua – ma i meccanismi molecolari alla base di questo fenomeno non erano molto chiari».

Studiando i dati di una biobanca inglese, i ricercatori hanno analizzato il corredo genetico di quasi mezzo milione di partecipanti e la distribuzione dei tessuti grassi, osservando milioni di varianti genetiche e la loro influenza sulla distribuzione del grasso in braccia, gambe e addome. In questo modo hanno identificato un centinaio di geni che influisce sul grasso nelle diverse parti del corpo.

«Siamo rimasti sorpresi dall’effetto dei geni più forte nelle donne. Molti di questi codificano le proteine che modellano la matrice extracellulare (cioè quella parte di tessuto che funziona da supporto alle cellule)», aggiunge Asa Johansson, una dei ricercatori. Secondo lo studio il rimodellamento della matrice extracellulare è uno dei fattori che determina la diversa distribuzione del grasso nel corpo.

La maggiore presenza di tessuto adiposo nell’addome è stata collegata ad un aumento del rischio di ammalarsi: negli uomini potrebbe spiegare la maggiore frequenza di malattie cardiovascolari, mentre diversi studi hanno dimostrato che i depositi di grasso su fianchi e gambe offrono uno scudo protettivo alle donne da queste patologie. «Quello che abbiamo scoperto potrebbe essere usato – conclude Rask-Andersen – per sviluppare nuovi farmaci capaci di migliorare la distribuzione del grasso e quindi ridurre il rischio di malattie».


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