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Mangiare noccioline associandole ai pasti? Può essere un toccasana per la salute del cuore. Rende infatti più elastiche le arterie proteggendo contro lo sviluppo di malattie cardiovascolari. La quantità consigliata sono 85 grammi e devono essere non salate.

A evidenziarlo uno studio della Pennsylvania State University, pubblicato su Journal of Nutrition. «In genere, ogni volta che si mangia qualcosa, le arterie diventano un po’ più rigide durante il periodo post-pasto – spiega Penny Kris-Etherton, autrice principale della ricerca – ma abbiamo dimostrato che se si associano le arachidi ciò può aiutare a prevenire la risposta di irrigidimento». «Dopo un pasto, i trigliceridi aumentano e questo diminuisce tipicamente la dilatazione delle arterie, ma le arachidi impediscono proprio un importante aumento dei trigliceridi stessi», aggiunge.

Lo studio ha preso in esame 15 adulti sovrappeso o obesi considerati sani. I partecipanti hanno consumato arachidi non salate all’interno di un pasto nella forma di un frullato. A un gruppo di controllo è stato assegnato invece un shake simile per qualità e quantità, ma senza arachidi.

I ricercatori hanno prelevato campioni di sangue per misurare lipidi, lipoproteine e livelli di insulina dopo 30, 60, 120 e 240 minuti, mentre una macchina ad ultrasuoni è stata utilizzata per misurare il flusso sanguigno.

Secondo i risultati c’è stata una riduzione del 32 per cento nei livelli di trigliceridi in chi aveva consumato arachidi rispetto al gruppo di controllo.

ANSA


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Mangiare sano potrebbe aumentare per l’uomo le chance di concepire: l’alimentazione corretta è infatti associata a migliore qualità dello sperma, specie per quegli uomini che partono già con qualche problema di fertilità o con una qualità del seme non perfettamente nella norma.

Lo rivela uno studio su 129 maschi “in attesa” di un bebè pubblicato sulla rivista Fertility and Sterility, condotto presso la University Medical Centre di Rotterdam in Olanda.

Gli esperti hanno analizzato lo sperma dei partecipanti (concentrazione e conta degli spermatozoi, motilità) e con dei questionari ad hoc la loro dieta prima del concepimento. E’ emerso che coloro che seguivano una dieta sana (ricca di cereali integrali, legumi, frutta, olio d’oliva, povera di zuccheri e carboidrati raffinati) presentavano uno sperma migliore. Ciò è risultato vero in particolar modo per coloro che hanno avuto qualche difficoltà in più a concepire; rispetto a maschi con dieta poco corretta, presentavano sperma migliore.

Lo studio suggerisce che anche gli stili di vita e in particolare i comportamenti alimentari sono un fronte possibile di intervento per coppie che hanno problemi di concepimento, un problema in aumento in Europa e legato, spesso, proprio al maschio.

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Due ore e mezza a settimana di esercizio fisico. Questa la “ricetta” per sperimentare un minor declino della qualità di vita e della mobilità quando si ha il Parkinson. A identificarla una ricerca condotta da un team guidato dalla Northwestern University di Chicago, pubblicata sulla rivista Journal of Parkinson’s Disease.

Gli studiosi hanno preso in esame i dati della National Parkinson Foundation Quality Improvement Initiative, uno studio internazionale e multicentrico che ha coinvolto 21 realtà tra Usa, Israele e Paesi Bassi. Oltre 3.400 partecipanti hanno fornito dati in più di due anni, con informazioni raccolte nel corso di almeno tre visite.

La mobilità è stata misurata con un test apposito, cronometrando i partecipanti man mano che si alzavano da una sedia, percorrevano tre metri, giravano e tornavano a sedersi. Come spiega Miriam R. Rafferty, prima autrice dello studio, «dai risultati è emerso che le persone con malattia di Parkinson che mantenevano 150 minuti di esercizio a settimana avevano un declino inferiore in termini di qualità di vita e mobilità nel corso di due anni rispetto a chi non faceva esercizio o ne faceva meno. Ciò è risultato valido sia per chi già si esercitava, che per chi ha iniziato a farlo all’inizio dello studio».

Un dato che ha sorpreso gli studiosi è che i benefici maggiori riguardavano le persone in stato avanzato di malattia. Non ci sono indicazioni specifiche sul tipo di esercizio migliore, si può scegliere il proprio preferito, l’importante è che la “dose” sia 150 minuti a settimana.

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Utilizzando delle cellule staminali rese “immortali”, e dunque riutilizzabili, è possibile produrre sangue in laboratorio in una quantità sufficiente per le trasfusioni.

Lo ha dimostrato uno studio coordinato dall’università di Bristol pubblicato dalla rivista Nature Communications, secondo cui il sangue ottenuto in questo modo potrebbe essere usato per chi ha gruppi estremamente rari.

Il “sangue artificiale”, spiegano gli autori, può già essere prodotto a partire da staminali che però nel processo muoiono, rendendo impossibile ottenere quantità elevate. I ricercatori hanno sviluppato un processo che a partire da staminali adulte ottiene cellule eritroidi, quelle che fanno da precursore ai globuli rossi, capaci di replicarsi, e quindi “immortali”. Nei test di laboratorio sono stati ottenuti “litri” di globuli rossi, spiega l’autore principale alla Bbc, mentre i test di sicurezza su eventuali trasfusioni con questo “sangue artificiale” inizieranno entro l’anno, con l’obiettivo di usarli per le persone, di solito immigrati, che hanno caratteristiche del sangue come la presenza o l’assenza di proteine che rendono impossibili le trasfusioni.

«Il primo uso terapeutico di globuli rossi prodotti in questo modo» spiega David Anstee «sarà probabilmente per pazienti con gruppi sanguigni rari, per cui la donazione tradizionale può essere una fonte difficile».

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L’utilizzo del navigatore satellitare nel terzo millennio è talmente comune che, talvolta, molti hanno la sensazione di non essere più in grado di orientarsi senza. Ebbene, potrebbe non essere solo una sensazione ma un dato di fatto, almeno secondo quanto suggerisce un esperimento pubblicato su Nature Communication

L’uso abituale dei navigatori satellitari sembra disattivare alcune regioni del cervello che potrebbero altrimenti cercare dei percorsi alternativi migliori aumentando le abilità di ricerca nella persona che sta guidando.

L’utilizzo del navigatore satellitare nel terzo millennio è talmente comune che, talvolta, molti hanno la sensazione di non essere più in grado di orientarsi senza. Ebbene, potrebbe non essere solo una sensazione ma un dato di fatto, almeno secondo quanto suggerisce un esperimento pubblicato su Nature Communication.

Lo studio

La ricerca condotta su 24 volontari reclutati dai ricercatori dell’Imperial College di Londra, ha evidenziato che quando si cerca un percorso stradale senza l’aiuto di un navigatore satellitare si attivano nel cervello alcune aree dell’ippocampo e della corteccia prefrontale che risultano come “spente” quando invece si usa il navigatore.

“Quando abbiamo a disposizione la tecnologia che ci dice da che parte andare alcune parti del cervello sembrano non rispondere alla rete stradale” – afferma Hugo Spiers del dipartimento di psicologia sperimentale dell’University College di Londra autore principale dell’esperimento. In questo senso, si può dire che il nostro cervello ha ‘spento’ il suo interesse per le strade intorno a noi”.

I ricercatori hanno aggiunto che l’uso costante di dispositivi elettronici nel lungo termine, potrebbe rendere gli utenti meno abili ad imparare nuovi percorsi in una rete stradale cittadina senza l’aiuto del navigatore. Come estensione della ricerca, gli scienziati hanno anche analizzato le reti stradali delle principali città di tutto il mondo cercando di visualizzare dei percorsi più o meno facili. E hanno visto che Londra, con la sua complessa rete di piccole strade, sembra ripercuotersi principalmente sull’attività dell’ippocampo.

Al contrario, per spostarsi in auto in città come Manhattan e New York, dove il layout della mappa di navigazione della città richiede spostamenti a destra o a sinistra, o diritti avanti e indietro, gli sforzi del cervello per imparare percorsi alternativi possono essere inferiori.

Ovvero lo studio dimostra anche come la complessità della rete stradale di una città abbia un possibile impatto sullo sviluppo delle abilità relative ad alcune funzioni cerebrali.


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Centocinquanta ore di lezioni frontali e sul campo per capire, sin dalla terza Liceo scientifico, se si sia o meno “tagliati” per affrontare la Facoltà di Medicina e la professione del medico. E’ questo lo spirito del progetto condiviso, con un Accordo Quadro firmato ieri, dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dalla Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri.

La sperimentazione didattica (che coinvolgerà venti licei scientifici distribuiti su tutto il territorio nazionale e individuati tramite un bando del Miur, oltre agli Ordini provinciali delle relative aree geografiche) nasce sulla scia di un progetto pilota già messo in atto da sette anni (sotto il coordinamento del dirigente scolastico Giuseppina Vinci e del presidente Omceo Pasquale Veneziano), con ottimi risultati in termini di gradimento e di efficacia, dal Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Reggio Calabria, che sarà la scuola capofila.

Ma in cosa consisterà, nei dettagli, il percorso? Una volta individuati i venti istituti, essi inseriranno nei loro piani di studio la nuova disciplina opzionale “Biologia con curvatura biomedica”, da svilupparsi in orario aggiuntivo e che contribuirà alla media dei voti e all’acquisizione dei crediti formativi. Gli studenti delle classi terze che manifesteranno interesse verranno inseriti nel percorso, che sarà triennale. Il monte di 50 ore annue sarà suddiviso in quaranta ore di lezioni frontali (per metà tenute dai docenti di scienze e metà da professionisti individuati dagli Ordini dei Medici e Odontoiatri) e in dieci ore “sul campo”, presso strutture sanitarie, ospedali, laboratori di analisi.

Una Cabina di Regia nazionale, della quale faranno parte anche la professoressa Vinci e Pasquale Veneziano,  eserciterà la funzione di indirizzo e di coordinamento.

“Come Area Strategica della Formazione della Fnomceo abbiamo verificato la qualità e l’efficacia scientifica del progetto calabrese quale metodo di orientamento per l’accesso alla Facoltà di Medicina – spiega Roberto Stella, che di tale Area è coordinatore -. Per ogni anno scolastico in cui è stata fatta la sperimentazione, circa la metà dei ragazzi che si erano iscritti al percorso lo hanno abbandonato, in prevalenza all’inizio del triennio di formazione. La motivazione principale è stata che hanno verificato di non avere le adeguate inclinazioni o motivazioni. E questo ha risparmiato loro anni di fatiche e di studio su una strada che non era, evidentemente, quella in cui avrebbero potuto esprimersi al meglio. Inoltre, coloro che hanno portato a termine il percorso hanno superato più facilmente i test di accesso”.


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Per la prima volta il numero delle persone morte nel corso di un anno a causa di un tumore diminuisce invece di aumentare: nel 2013 i decessi sono stati 1134 in meno rispetto all’anno precedente.

Un successo merito di una maggiore prevenzione e più adesione alle campagne di screening così come al maggiore utilizzo di terapie sempre più precise e mirate.

A fare il punto è l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) con un convegno ospitato presso il Ministero della Salute.

Nonostante il numero di nuove diagnosi sia in continuo aumento, migliorano le aspettative di vita dei malati di cancro. Nel 2013, in base ai dati Istat, le morti registrate sono state 176.217 rispetto alle 177.351 del 2012. «In diciassette anni, dal 1990 al 2007, i cittadini che hanno sconfitto il cancro nel nostro Paese sono aumentati del 18% (uomini) e del 10% (donne)”, afferma Carmine Pinto, presidente AIOM. Merito anche dell’oncologia di precisione, che individua le singolarità genetiche dei diversi tumori. “Oggi – prosegue l’esperto – sappiamo che la malattia si sviluppa e progredisce diversamente in ogni persona. Perché il paziente possa ricevere una terapia di precisione è necessaria una diagnosi con test specifici» da eseguire in “laboratori di qualità”. Così si possono mettere a punto trattamenti a bersaglio molecolare che agiscono su specifiche alterazioni a carico del DNA della cellula tumorale.

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Eseguita con successo da Cardiochirurghi del Gemelli di Roma, rarissima operazione a cuore aperto in una paziente quasi centenaria, che aveva sviluppato una grave malattia della valvola aortica. L’anziana donna ha fatto ritorno a casa e sta bene.

Un intervento a cuore aperto e salvavita a una valvola cardiaca effettuato con successo su una paziente quasi centenaria.  L’eccezionale e rara operazione è stata eseguita presso il Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma dall’equipe della UOC di Cardiochirurgia diretta da Massimo Massetti, Ordinario di cardiochirurgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

La paziente, nata nel 1920 e molto attiva, aveva sviluppato una grave malattia della valvola aortica (stenosi valvolare aortica serrata) che l’aveva ridotta a uno stato di grave sofferenza con affanno e mancanza del respiro dopo minimi sforzi. L’anziana signora, motivata a farsi curare, è stata assistita dall’equipe di Filippo Crea, ordinario di Cardiologia all’Università Cattolica  e direttore del Polo di Scienze cardiovascolari e toraciche, nel Percorso Clinico delle Valvulopatie (Heart Valve Clinic) del Policlinico Universitario A. Gemelli.

Questo percorso clinico, tra i pochi esistenti in Europa, è costituito da numerosi specialisti con competenze specifiche nelle patologie delle valvole cardiache. Cardiologi Clinici e Interventisti, Aritmologi, Cardioanestesisti, Fisiatri insieme ai Cardiochirurghi, hanno approfondito la diagnosi, decidendo durante le quotidiane riunioni dell’Heart Team del Gemelli, la terapia più idonea all’anziana paziente resa particolarmente fragile dalla malattia. Dopo un’adeguata preparazione, il delicato intervento chirurgico è stato eseguito con una tecnica originale micro-invasiva che comporta un’incisione di 2 cm sul torace utilizzando le tecnologie più innovative tra le quali la modernissima sala operatoria ibrida di cui è dotato il Polo di Scienze cardiovascolari del Policlinico.

La paziente quasi centenaria ha superato brillantemente l’intervento e l’immediato post-operatorio grazie anche alle cure dei cardio-rianimatori del Gemelli diretti da Franco Cavaliere e dopo una settimana di degenza e un periodo di riabilitazione, è tornata a casa in piena autonomia.

“Questo approccio – spiega Massetti – è stato realizzato sulla paziente come un sarto confeziona un abito su misura e il limite dell’età è stato superato grazie alla grande collaborazione di tutti gli specialisti che hanno messo in sinergia le proprie competenze per realizzare questo intervento chirurgico salvavita”.

“L’invecchiamento della popolazione italiana – commenta Antonio Rebuzzi, Direttore dell’Unità Intensiva Cardiologica del Policlinico – richiede continue sfide che i medici possono affrontare non solo introducendo nuove terapie, ma anche modificando la gestione centrata sul paziente all’interno dell’ospedale. La creazione di percorsi clinici specifici per ogni patologia cardiaca insieme a una ristrutturazione dei reparti, degli ambulatori e delle sale operatorie, costituiscono un reale progresso nella diagnosi e cura delle malattie cardiache”.

L’Area Cardiovascolare del Policlinico A. Gemelli rappresenta sempre più un polo di riferimento per numerosi pazienti provenienti da tutta l’Italia e i dati relativi all’attività svolta durante l’anno 2016 dimostrano questa eccellenza con oltre 250 interventi di chirurgia valvolare eseguiti con successo.


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