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Estate tempo di diete, ma non bisogna lasciarsi andare all’improvvisazione e ai luoghi comuni.

Il consiglio arriva dai dietisti dell’Andid, Associazione nazionale dietisti, durante un incontro a Roma. «Spesso i luoghi comuni su cosa fare per dimagrire, eliminare alcuni alimenti, ridurre drasticamente alcune cose, non hanno fondamento scientifico – spiega Marco Tonelli, presidente Andid -. Anzi, per potersi mantenere in linea è importante mangiare tutto, non escludere nulla dalla propria alimentazione. Gli alimenti che spesso sono ritenuti alimenti che ingrassano, in realtà spesso possono aiutare ad avere un metabolismo più efficace e a permetterci di dimagrire e stare in forma. Come ad esempio, la pasta, il pane, i carboidrati in genere, che mangiati nelle giuste quantità ci fanno stare in salute e non è vero che ci aumentano il peso. L’effetto ovviamente ci fa male e ci porta ad aumentare il peso proprio laddove non vogliamo che aumenti. Nei punti che non ci piacciono e ci danno fastidio».

«L’alimentazione – aggiunge – deve essere assolutamente variata: in estate le necessità metaboliche sono diverse rispetto all’inverno, abbiamo bisogno di meno calorie, di meno grassi. Di un’alimentazione più leggera fatta di alimenti vegetali, quindi frutta e verdura senza dubbio, ma anche primi piatti: primi piatti freddi, secondi piatti ovviamente, tutti gli alimenti proteici sono importanti. Ed è importante che sia una varietà nel corso della settimana. Dando spazio a tutto: a carne e derivati, pesce, uova, derivati del latte, che se inseriti con le giuste frequenze, ci permettono di stare bene, in forma e non ingrassare».

«Bisogna fare attenzione – conclude – all’eccesso di grassi, soprattutto all’eccesso di zuccheri semplici e di alimenti raffinati, perché ci creano un picco glicemico e di conseguenza un picco di insulina».


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Prendersi una pausa dalla dieta può aiutare a perdere peso. Più che i regimi dietetici continuativi funzionano quelli in qualche modo intermittenti, dove per qualche periodo si interrompe la rigidità imposta dalla cura dimagrante, pur senza strafare.

E’ quanto emerge da una ricerca guidata dall’Università della Tasmania, in Australia, pubblicata sulla rivista International Journal for Obesity.

Gli studiosi hanno preso in esame, nell’ambito di una ricerca denominata Matador (Minimising Adaptive Thermogenesis And Deactivating Obesity Rebound), che mirava proprio a confrontare gli effetti di una dieta continuativa rispetto che intermittente, i dati relativi a 51 uomini obesi sottoposti a un regime dietetico per 16 settimane. In maniera casuale sono stati assegnati a una cura dimagrante da seguire senza interruzioni oppure per due settimane con uno stop di altre due, per poi riprendere il ciclo nel complesso per 30 settimane.

Quelli del gruppo della dieta intermittente non solo hanno perso più peso, ma ne hanno hanno anche guadagnato meno dopo la conclusione dell’esperimento. Sono riusciti infatti a mantenere una perdita media di peso di 8 kg in più rispetto a coloro avevano seguito un rigido regime alimentare in maniera continuativa, sei mesi dopo la fine.

La chiave potrebbe stare in un “riavvio” del metabolismo secondo gli esperti, che rilevano come il corpo ha una reazione importante quando si dimagrisce: ingaggia una sorta di “battaglia” contro la perdita costante di una quantità notevole di peso. Così brucerà meno grassi una volta che si comincia a mangiare normalmente, cosa che rende più difficile anche il mantenimento degli obiettivi.

ANSA


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C’è chi le chiama le diete ‘yo-yo’, intendendo con questo termine colloquiale quell’abitudine assai frequente di alternare periodi di regime alimentare a contenuto calorico estremamente ridotto, se non di digiuno vero e proprio, a periodi di bagordi come se non ci fosse un domani. Una battaglia metabolica che si combatte sul corpo, con drammatiche escursioni di peso corporeo.

E che non sia solo una questione estetica, ma un rischio serio per la salute lo dimostra uno studio pubblicato oggi sul New England Journal of Medicine che è andato a valutare l’effetto delle escursioni del peso sulla mortalità e sugli eventi cardiovascolari nei pazienti con malattia cardiovascolare già in atto.

Lo studio, che ha arruolato 9.509 partecipanti, è stato disegnato per valutare safety ed efficacia dell’atorvastatina e aveva come endpoint primario un composito di coronaropatia, infarto miocardico non fatale, arresto cardiaco rianimato, rivascolarizzazione e angina. Endpoint secondari erano la comparsa di qualunque evento cardiovascolare (coronaropatia, evento cerebrovascolare, arteriopatia periferica, scompenso cardiaco), la mortalità, l’infarto del miocardio e l’ictus.

Dopo gli opportuni adeguamenti per i vari fattori di rischio cardiovascolari noti , da questa nuova sotto-analisi pubblicata oggi, emerge che, in parallelo all’aumento della variabilità del peso corporeo, si assiste ad un aumento del rischio di eventi coronarici, cardio-vascolari e di mortalità.

In particolare tra i soggetti appartenenti al gruppo con la maggior variabilità del peso corporeo, il rischio di un evento coronarico aumentava del 64%, quello di un evento cardiovascolare dell’85%, quello di mortalità del  124%, quello di infarto del 117% e infine quello di ictus del 136%.

Tra i soggetti coronaropatici dunque le fluttuazioni del peso corporeo si associano ad una maggior mortalità e ad un maggior tasso di eventi cardiovascolari, indipendentemente dalla presenza o meno degli altri tradizionali fattori di rischio cardiovascolari.

La perdita di peso – concludono gli autori – è di certo un importante intervento sullo stile di vita, visto che l’obesità nei soggetti senza patologie cardiovascolari rappresenta un importante fattore di rischio per insulino-resistenza, diabete, ipertensione, dislipidemia e coronaropatia, mentre una importante perdita di peso come quella indotta dalla chirurgia bariatrica abbatte drammaticamente il rischio cardiovascolare.

Tuttavia, nei soggetti con patologia cardiovascolare già stabilita, fare su e giù col peso, come dimostrato in questo studio, può dare grossi problemi: non solo aumenta il rischio di eventi cardiovascolari, ma addirittura si associa in maniera forte e indipendente alla comparsa di diabete mellito.

Di certo questo studio attesta la presenza di un’associazione, che non significa causalità naturalmente e questo è un suo limite, insieme ad altri metodologici. Resta il fatto che rappresenta un importante campanello d’allarme da non sottovalutare ma da approfondire in futuro.


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