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E’ uno studio che dovrebbero leggere tutti i genitori interessati al curriculum di studio dei propri figli. Imparare uno strumento musicale o una lingua straniera sarebbero in grado di ‘modellare’ la funzionalità di alcune aree cerebrali, migliorandone l’efficienza. In un mondo dominato dagli studi scientifici, questa ricerca rivaluta gli studi umanistici. E non solo sul piano della cultura.

Suonare la chitarra (o un altro strumento) e imparare una lingua rendono più smart il cervello. Uno studio appena pubblicato su Annals of the New York Academy of Sciences dimostra infatti che musicisti e persone bilingue impiegano meno risorse cerebrali per portare a termine un esercizio di memoria.

Le persone con alle spalle studi di musica o di lingue infatti per completare un esercizio attivano circuiti cerebrali diversi, con un ‘dispendio energetico’ inferiore rispetto a chi conosce una sola lingua o non ha mai effettuato studi musicali.

“Sono risultati che dimostrano che i musicisti e le persone bilingue fanno meno fatica a completare un certo compito – commenta il primo autore dello studio Claude Alain, del Baycrest Rotman Research Institute –  un effetto questo che potrebbe proteggere dal declino cognitivo e comunque ritardare l’esordio della demenza”. La musica e le lingue straniere insomma in qualche maniera modellano funzioni cerebrali e reti neurali utilizzate per l’esecuzione di un determinato compito.

I risultati di questo studio non giungono del tutto inaspettati. E’ noto da tempo infatti che musicisti e poliglotti sono dotati di una migliore memoria di lavoro, cioè della capacità di ricordare le cose (un numero di telefono, la lista della spesa, un compito matematico). Quello che non si sapeva invece era perché ciò accada.

La ricerca appena pubblicata è il primo studio di imagingcerebrale a studiare, confrontandoli tra loro, tre gruppi di persone e questo ha portato a scoprire che una stessa attività sollecita il funzionamento di parti diverse del cervello nelle persone assegnate a questi gruppi. A finire sotto la lente dei ricercatori è stato il cervello di 41 giovani adulti (età compresa tra i 19 e i 35 anni), distribuiti in tre gruppi in base al fatto di essere madrelingua inglesi e a digiuno di musica, musicisti madrelingua inglesi o bilingui non in grado di suonare uno strumento musicale.

Ognuno di loro è stato sottoposto ad uno studio di neuro-imaging funzionale mentre veniva chiesto loro se il suono somministrato nel test fosse della stessa natura di quello precedentemente ascoltato. I suoni del test potevano essere prodotti da strumenti musicali, dall’ambiente o dall’uomo. Ai partecipanti veniva inoltre richiesto di indicare se il suono ascoltato provenisse dalla stessa direzione del precedente.

I risultati dimostrano che i musicisti tendono a ricordare la tipologia del suono più rapidamente di chi non suona uno strumento; bilingui e musicisti sono invece in grado di indicare la direzione di provenienza del suono con maggior precisione. I bilingui infine non sono andati molto meglio di chi parla una sola lingua e non suona uno strumento nel compito di ricordare il suono; tuttavia, nel completare il compito, mostrano comunque un’attività cerebrale ridotta.

“I bilingue – sottolinea Alain – impiegano più tempo a processare i suoni, poiché l’informazione deve attraversare due ‘biblioteche’ linguistiche, anziché una sola. Durante l’esercizio il cervello dei bilingui mostra maggiori segni di attivazione nelle aree adibite alla comprensione del linguaggio e questo supporta questa teoria”.

Il gruppo di ricerca di Alain vaglierà adesso, in un nuovo studio, un’altra ipotesi: lo studio del’arte e della musica sono in grado di modificare alcune funzioni del cervello? La risposta alla prossima pubblicazione.


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Assicurare a pazienti e familiari tutta l’informazione e l’assistenza necessarie per utilizzare questa opportunità e un centro per il monitoraggio 24 ore su 24, 7 giorni su 7, al quale rivolgersi quando il proprio caro dovesse smarrirsi. E’ ciò che prevede il protocollo firmato dall’Assessorato regionale al Diritto alla salute, dalla Prefettura di Firenze, dall’AIMA e da Penelope onlus.

Dotare i pazienti con disturbi cognitivi da Alzheimer di un semplice dispositivo GPS per localizzarli in caso di smarrimento e consentire ad una centrale operativa di rintracciarli e soccorrerli. Assicurare a pazienti e familiari tutta l’informazione e l’assistenza necessarie per utilizzare questa opportunità e un centro per il monitoraggio 24 ore su 24, 7 giorni su 7, al quale rivolgersi quando il proprio caro dovesse smarrirsi. E’ ciò che prevede per grandi linee un protocollo, il primo di questo genere, firmato lo scorso 2 febbraio dall’Assessorato regionale al Diritto alla salute della Regione Toscana, dalla Prefettura di Firenze, dall’AIMA – Associazione Italiana Malattia di Alzheimer e da Penelope onlus.

L’apparecchio, che potrà essere indossato dalla persona con decadimento cognitivo, sarà messo a disposizione gratuitamente e affidato in comodato d’uso a pazienti e familiari, che dovranno limitarsi esclusivamente a dotarsi di una sim card per il suo funzionamento. In caso di smarrimento, i familiari potranno avvertire un centro di monitoraggio, attivo h24, in grado di localizzare la persona scomparsa e di attivarne la ricerca con l’intervento delle forze di polizia, coordinate dalla Prefettura, e del servizio sanitario.

Le difficoltà di orientamento, a partire dalle prime fasi del decadimento cognitivo collegato ad una demenza rappresentano, come è noto, un rischio non irrilevante, e contribuiscono a rendere più pesante l’impatto sociale della malattia. L’incapacità di ritrovare la strada di casa, o di sapere esattamente dove ci si trova, può mettere a rischio l’incolumità di queste persone, talvolta anche la vita, oltre che la serenità delle loro famiglie. Le tecnologie possono rappresentare, quindi, un aiuto importante.

App, bracciali, orologi ed etichette che utilizzano il sistema di localizzazione GPS offrono ormai una vasta gamma di possibilità per la protezione di pazienti con decadimento cognitivo, e possono essere scelti in maniera da tenere massimamente presenti le esigenze della persona e dei familiari, comprese le garanzie di sicurezza rispetto alla necessità che questi strumenti siano costantemente indossati.

Tra gli elementi qualificanti del protocollo, la collocazione dell’utilizzo della tecnologia GPS all’interno del percorso di presa in carico del paziente e della relazione con caregiver e familiari. E’ prevista una valutazione di appropriatezza d’intesa, laddove possibile, con lo stesso paziente e nel massimo rispetto della sua privacy, oltre che con i caregiver. L’assegnazione di un dispositivo di geolocalizzazione non può prescindere, infatti, dalla valutazione attenta delle capacità e dei bisogni della persona, anche in relazione alla qualità della rete che lo ha preso in carico. Su questi aspetti è necessaria, inoltre, la massima chiarezza su finalità, valore e limiti dello strumento e del suo utilizzo, che vanno condivisi con i caregivers.

Non a caso il protocollo è stato firmato a breve distanza dalla adozione da parte della Regione Toscana di un piano regionale contro le demenze, e si inserisce a pieno titolo nelle politiche messe a punto per contrastare l’elevato impatto sociale di questa malattia. Il piano concentra la propria attenzione, tra l’altro, sulla presa in carico integrata del paziente e della sua famiglia e sull’organizzazione di una rete socio-sanitaria integrata di sostegno. Tra gli obiettivi, la creazione di una rete di servizi che non lascino mai soli paziente e familiari, e la crescita della consapevolezza della comunità sulle demenze e sul loro impatto sociale.

In Toscana i casi di demenza sono circa 86 mila, 23 mila dei quali in provincia di Firenze, mentre i pazienti con Alzheimer sono 47 mila.


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Un consumo giornaliero di agrumi può aiutare a contrastare la demenza. Arance, pompelmi, limoni e lime possono ridurne il rischio fino quasi al 15 per cento.

È quanto emerge da uno studio dell’Università del Tohoku, in Giappone, pubblicato sulla rivista British Journal of Nutrition. Secondo gli studiosi le parti commestibili degli agrumi sono ricche di flavonoidi specifici e alcuni esperimenti condotti a livello cellulare e sugli animali hanno dimostrato che questi flavonoidi possono attraversare la barriera emato-cerebrale e giocare un ruolo come antiossidanti e antinfiammatori, persino riparando qualche forma di danno a livello delle cellule. Per la ricerca sono stati presi in esame i dati dell’Ohsaki Cohort 2006 Study, condotto su una popolazione di over 65 che viveva a Oksaki City, nel nord-est del Giappone.

È stato svolto un sondaggio sulle abitudini alimentari e sul consumo di agrumi e i ricercatori hanno seguito 13.373 persone nel 2012 per vedere quanti avessero sviluppato demenza (definita da una particolare assicurazione sociale che in Giappone occorre stipulare) nel corso di sei anni, escludendo anche altri fattori legati potenzialmente allo sviluppo della malattia.

In coloro che consumavano agrumi 3-4 volte a settimana e ancora di più in chi li consumava tutti i giorni il rischio risultava ridotto rispetto a chi li consumava meno di due volte.

Secondo i ricercatori i risultati dello studio sono incoraggianti, ma naturalmente ci sono ancora tutta una serie di fattori da considerare prima di poter stabilire con completa certezza che consumare agrumi frequentemente riduce il rischio di demenza.

ANSA


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Avere un buon livello d’istruzione, non fumare e conservare l’udito sono i tre fattori chiave per cercare di prevenire la demenza senile. L’istruzione consente al cervello di contrastare il declino cognitivo, non fumare garantisce una migliore salute cardiovascolare e un buon udito permette di sperimentare nuovi ambienti.

Apprendere nuove cose, mangiare e bere in modo sano, non fumare, evitare la solitudine, salvaguardare l’udito; sono alcuni dei fattori che permetterebbero di prevenire almeno un terzo dei casi di demenza.  Lo sostiene un gruppo di 24 esperti internazionali ai quali la rivista scientifica The Lancet ha commissionato un’ampia e accurata analisi dei fattori di rischio che sono dietro alla demenza. Gli esperti ne hanno evidenziato nove come particolarmente importanti: proseguire l’istruzione oltre i 15 anni, ridurre la pressione arteriosa, l’obesità e la perdita dell’udito, ridurre il fumo, combattere la depressione, evitare la sedentarietà, l’isolamento sociale e il diabete.

“Anche se la demenza viene diagnosticata in una fase più avanzata della vita, i cambiamenti cerebrali di solito iniziano a svilupparsi molti anni prima – dice Gill Livingstone, professore dell’University College di Londra – Un approccio più ampio alla prevenzione della demenza rispetto a questi fattori di rischio potrebbe aiutare la società che invecchia a prevenire il crescente numero di casi di demenza”.

Il quadro della situazione
Le più recenti stime dell’Alzheimer’s Association International rilevano che circa 47 milioni di persone nel mondo vivono con una demenza e il costo delle malattie neurodegenerative  si aggira attorno agli 818 miliardi di dollari all’anno. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il numero delle persone coinvolte sarà quasi tiplicato nel 2050, arrivando a 131 milioni di pazienti.

I ricercatori hanno scoperto che il 35% di tutti i casi di demenza potrebbe essere prevenuto. Occorre lavorare su tre aspetti fondamentali: aumentare il grado di istruzione, smettere di fumare e ridurre la perdita dell’udito. Non completare l’istruzione secondaria, secondo i ricercatori, può rendere meno resilienti le persone al declino cognitivo quando invecchiano e preservare l’udito può aiutare le persone a sperimentare ambienti più ricchi e stimolanti, costruendo così una riserva cognitiva.

Smettere di fumare riduce l’esposizione alle sostanze neurotossiche e migliora la salute del cuore, che a sua volta influenza la salute del cervello.

Fonte: Lancet


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