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Confermato per il prossimo triennio come ‘Centro medico accademico’ dalla Joint Commission International. I supervisori della JCI hanno valutato l’Ospedale della Santa Sede su un totale di circa 300 standard e 1250 elementi misurabili, riscontrando alla fine solo 7 elementi parzialmente rispondenti, mentre tutti gli altri elementi sono stati considerati “pienamente rispondenti” agli standard internazionali di qualità e sicurezza delle cure.

È stato confermato per il prossimo triennio (2022-2024) l’accreditamento internazionale dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù come “Centro Medico Accademico” (Academic Medical Center). Il rapporto ufficiale della Joint Commission International (JCI), il principale ente accreditatore internazionale in campo sanitario, è arrivato a distanza di pochi giorni dall’indagine di valutazione svoltasi nella sede del Gianicolo dal 20 al 24 settembre.

I supervisori della Joint Commission International, si legge in una nota dell’Ospedale romano, hanno valutato l’Ospedale della Santa Sede su un totale di circa 300 standard e 1250 elementi misurabili, riscontrando alla fine solo 7 elementi parzialmente rispondenti, mentre tutti gli altri elementi sono stati considerati “pienamente rispondenti” agli standard internazionali di qualità e sicurezza delle cure.

Si tratta del miglior risultato mai ottenuto dalla prima certificazione del 2006, rinnovata poi negli anni successivi. Nel 2015, il primo riconoscimento come “Centro Medico Accademico” per l’intensa attività nel campo della formazione medica e della ricerca clinica, in virtù della collaborazione con l’Università di Tor Vergata, di cui l’Ospedale ospita la sede della cattedra di Pediatria.

Nella restituzione dei lavori, al termine della visita, gli esaminatori della JCI hanno espresso parole di grande apprezzamento nei confronti del Bambino Gesù e del suo personale: “Tutti gli operatori hanno partecipato ai lavori della survey con spirito di collaborazione e condivisione. Siamo rimasti ammirati da quello che fate in termini di competenza e dedizione, dalla vostra capacità di rispettare i diritti del bambino e di coinvolgerlo del processo di cura”.

“Questo ospedale – hanno concluso i supervisori – ha dato prova di grande eccellenza per quanto riguarda la qualità e l’assistenza prestata ai pazienti. Il miglioramento della qualità delle cure fa ormai parte del vostro DNA. Siamo certi che continuerete a riscuotere successo sia in Italia che nel resto del mondo con il vostro esempio”.

Joint Commission International è la divisione internazionale di The Joint Commission (USA), organizzazione non governativa dedita da oltre 75 anni al miglioramento della qualità e della sicurezza nei servizi sanitari. L’accreditamento JCI, oggi, è considerato lo standard di primo livello nell’assistenza sanitaria mondiale.

“Sono molto orgogliosa di questo risultato – ha commentato la presidente del Bambino Gesù Mariella Enoc – e molto grata nei confronti del personale dell’Ospedale, che anche in una stagione difficile come questa – segnata dalla pandemia – ha concentrato i suoi sforzi nel miglioramento della qualità e della sicurezza delle cure rivolte ai nostri pazienti. L’accreditamento JCI è uno strumento prezioso di governo clinico, che negli anni ci ha aiutato sempre di più a lavorare in modo multidisciplinare con spirito di squadra, consolidando la cultura internazionale dei nostri progetti di innovazione clinica”.

Soddisfazione per il riconoscimento è stata espressa anche dall’Assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato: “Un giusto riconoscimento per la competenza e la passione dei professionisti e degli operatori sempre rivolta alla cura dei più piccoli. Una vera eccellenza del nostro Sistema sanitario regionale dimostrata anche nella gestione della pandemia”.

(La foto di copertina è di: Ospedale Bambino Gesù – Sede di San Paolo)

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Sono state 11 le equipe impegnate in contemporanea che hanno consentito di trapiantare 2 cuori, un polmone, 2 fegati e 4 reni. Un risultato raggiunto grazie alla generosità e solidarietà dei donatori e dei loro familiari.

È stata una vera e propria maratona di trapianti quella che tra martedì 21 e mercoledì 22 settembre ha consentito, grazie alla grande generosità dei donatori e delle loro famiglie, di trapiantare all’Irccs Policlinico di Sant’Orsola, 9 persone in 24 ore 2 di cuore, una di polmone, 2 di fegato e 4 di rene. A beneficiarne 4 donne e 5 maschi tra i 26 e i 68 anni, provenienti da tutta Italia: Sicilia, Sardegna, Puglia, Toscana e anche Emilia Romagna.

Sono stati 123 i professionisti che hanno lavorato senza sosta per riuscire nell’impresa di garantire a ognuna delle 9 persone che lo attendevano un organo nuovo. In contemporanea anche due complicati interventi cardiochirurgici in emergenza di dissezione dell’aorta. 11 equipe al lavoro praticamente all’unisono.

L’Irccs Policlinico di Sant’Orsola in 20 ore ha mobilitato 123 professionisti: 56 chirurghi, 11 anestesisti, 11 perfusionisti, 27 infermieri e 18 Oss. Utilizzate complessivamente 74 unità di sangue (circa 20 litri) e 15 litri di plasma (frutto della generosità di oltre 80 donatori). Particolarmente intenso l’impegno della Cardiochirurgia che, oltre ai due trapianti di Cuore, ha garantito la presenza del cardiochirurgo durante il trapianto di Polmone al fianco dei chirurghi toracici ed è intervenuta su due delicati interventi di dissezione dell’aorta. Impegnate quasi contemporaneamente 5 equipe cardiochirurgiche. La Cardiochirurgia del Policlinico Sant’Orsola ha così confermato il suo ruolo di riferimento Regionale per il trattamento della patologia aortica acuta.

Impennata delle donazioni. Questi risultati non sarebbero però possibili solo con la capacità clinica e organizzativa del sistema sanitario, se non ci fosse a monte il gesto di grande generosità e solidarietà dei donatori e dei loro familiari.


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È quanto ricordano i neonatologi delle Sin in occasione delle Settimana Mondiale per l’Allattamento materno, che si celebra dall’1 al 7 ottobre. Gli anticorpi anti-Sars-CoV-2 sono trasmessi dalla madre al neonato a seguito dell’infezione naturale o della vaccinazione.

Un farmaco salvavita per i neonati prematuri, il nutrimento ideale per crescere e svilupparsi in salute: il latte materno è parte integrante del processo riproduttivo, con notevoli implicazioni positive per la salute del neonato e della madre e rappresenta per i bambini uno scudo per la vita.

Tra gli indiscutibili benefici, è riconosciuto l’effetto protettivo del latte materno contro le infezioni, dovuto al passaggio di immunoglobuline ed a fattori bioattivi.

In occasione della Settimana Mondiale per l’Allattamento Materno, che si celebra dall’1 al 7 ottobre, la Società Italiana di Neonatologia mette in luce un altro importante quanto attuale aspetto: anche gli anticorpi anti-Sars-CoV-2 sono trasmessi dalla madre al neonato durante l’allattamento, a seguito dell’infezione naturale o della vaccinazione.

Da recenti studi è emerso che, in seguito all’infezione da coronavirus, sono sempre presenti nel latte materno anticorpi specifici ed alcuni di essi si ritrovano fino ai 10 mesi dal parto. È stato, inoltre, studiato che l’effetto neutralizzante sul coronavirus degli anticorpi si mantiene anche dopo la pastorizzazione del latte materno. Anche nel latte della mamma che ha ricevuto il vaccino a mRNA, attualmente consigliato in Italia, si verifica una costante presenza di anticorpi specifici anti-coronavirus, già inizialmente presenti due settimane dopo la prima dose di vaccino, per intensificarsi dopo due settimane dalla seconda dose. Questi dati preliminari evidenziano la presenza degli anticorpi anti-SARS-CoV-2 nel latte materno e testimoniano, quindi, un possibile specifico effetto protettivo al neonato-lattante dopo la vaccinazione.

La SIN da sempre e anche fin dall’inizio della pandemia, sostiene, promuove e protegge l’allattamento al seno, che costituisce uno tra i più importanti interventi di Salute Pubblica per la sua efficacia e il vantaggioso rapporto costo-beneficio: un grande supporto che la mamma può dare al proprio figlio.

Nonostante il Covid-19 abbia causato una sensibile riduzione della donazione del latte umano nel nostro Paese, l’Italia si è ancora una volta distinta perché nell’anno in corso sono state inaugurate due nuove Banche del Latte Umano Donato BLUD, portando a 40 il numero totale di banche del latte. Una risorsa fondamentale, una grande opportunità, non solo per la promozione ed il sostegno dell’allattamento al seno, ma anche per soddisfare le necessità dei neonati nati prematuri o affetti da altre patologie.

“La promozione dell’allattamento deve essere un percorso virtuoso – afferma Fabio Mosca, Presidente della SIN – che inizia in ospedale, ma che poi prosegue nel primo anno di vita, mettendo il neonato al centro delle scelte politiche e istituzionali, per creare ed incentivare condizioni che permettano alle mamme di continuare ad allattare anche dopo i primi mesi. Possono e devono farlo sin da subito, senza paure infondate sulla vaccinazione anti-Covid, ma, anzi con uno sprone in più: la protezione per i loro piccoli che non possono ancora vaccinarsi”.


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Il paziente, tenuto in vita attraverso un dispositivo di circolaziome extracorporea (Ecmo), ha ricevuto l’organo, proveniente dalla Romania, quando erano passate solo due ore dall’inserimento in lista di attesa. Il cuore donato ha ricominciato a battere nel nuovo torace dopo circa quattro ore e mezza dal suo prelievo dal donatore: questo il tempo necessario per la fase di prelievo, trasporto ed impianto del cuore nuovo.

Nei giorni scorsi, presso il Centro Trapianti di Cuore dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino, è stato effettuato un trapianto eccezionale. È stato salvato un uomo tenuto in vita attraverso un dispositivo di circolaziome extracorporea (Ecmo) con un cuore proveniente dalla Transilvania, grazie ad un trapianto record dopo solo due ore dall’inserimento in lista di attesa. A ricevere il prezioso dono un uomo di 41 anni trasferito il giorno stesso del trapianto dall’ospedale San Martino di Genova.

“Il paziente – spiega la Città della Salute in una nota – soffriva di una grave miocardiopatia fulminante che aveva dato i primi segnali all’inizio di agosto. Trasferito da un ospedale periferico del ponente ligure al San Martino di Genova si era reso necessario l’impianto di un sistema di assistenza cardiocircolatoria e respiratoria (ECMO), che non aveva però permesso un recupero della funzione cardiaca ad oltre dieci giorni della sua applicazione. Da qui la richiesta dei sanitari genovesi di un inserimento in lista per trapianto cardiaco in urgenza”.

Dopo neanche due ore dall’arrivo del paziente alla Città della Salute, è arrivata la segnalazione della disponibilità del cuore di un donatore di 29 anni deceduto per emorragia cerebrale in Transilvania in Romania. Dopo un’accurata valutazione della documentazione clinica e degli aspetti organizzativi relativi ad una donazione ad oltre 1400 km di distanza, l’organo è stato accettato dal Centro di Torino per il giovane paziente ligure in emergenza di trapianto.

“Grazie alla perfetta organizzazione da parte del Coordinamento Regionale Trapianti del Piemonte e del Centro Nazionale Trapianti di Roma – evidenzia la nota della Città della Salute – , un’équipe della Cardiochirurgia delle Molinette è partita per il prelievo di cuore in tarda serata con un volo dedicato. Alle due di notte è stata confermata l’idoneità dell’organo per il trapianto ed il giovane paziente è stato trasferito immediatamente in sala operatoria per l’intervento chirurgico”.

Il trapianto è stato effettuato con successo dal professor Massimo Boffini, con l’aiuto della dottoressa Erika Simonato e degli anestesisti dottor Carlo Burzio e Matteo Giunta, ed è durato oltre otto ore. Il cuore donato ha ricominciato a battere nel nuovo torace dopo circa quattro ore e mezza dal suo prelievo dal donatore (tanto ci è voluto per la fase di prelievo, trasporto ed impianto del cuore nuovo).

Attualmente il paziente è ricoverato in Cardio-Rianimazione delle Molinette con una funzione cardiaca ottima ed a breve potrà essere trasferito in reparto.

“Non era mai successo che un paziente attendesse un trapianto di cuore per sole due ore e che si trapiantasse un organo proveniente da così lontano – evidenzia ancora la nota della Città della Salute – . Tutto ciò si è potuto verificare grazie alla generosità che sta alla base di ogni donazione (e che, evidentemente, va oltre i confini nazionali), alla perfetta collaborazione tra le diverse organizzazioni nazionali di trapianto ed alla capacità ed all’impegno dei singoli Centri di trapianto cardiaco (come quello diretto dal professor Rinaldi) di affrontare nuove sfide”.


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La tecnica consiste in uno o più aghi inseriti all’interno della massa tumorale e il gas che viene iniettato congela il tumore, impedendogli di continuare ad alimentarsi. La massa quindi necrotizza e si riduce fino anche a scomparire. Ogni ago congela un’area di circa 3 cm. Il Rizzoli di Bologna è il primo centro in Italia a utilizzare la crioterapia per curare la fibromatosi desmoide.

Arriva dall’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna una nuova arma contro la fibromatosi desmoide. Sono già sei i pazienti trattati con la crioterapia, una tecnica di radiologia interventistica, si congela il tumore, che necrotizza, e la massa si riduce progressivamente fino anche a scomparire. La tecnica già sperimentata negli Stati Uniti e in Francia. “Il Rizzoli è il primo centro in Italia a utilizzare la crioterapia per curare la fibromatosi desmoide grazie a uno studio clinico del dottor Costantino Errani della Clinica ortopedica oncologica, insieme al dottor Giancarlo Facchini della Radiologia diagnostica ed interventistica”, spiega l’Istituto in una nota.

“Abbiamo trattato con questa tecnica la prima persona a luglio 2020, a un anno di distanza possiamo dire che i risultati sono sorprendenti – racconta Errani. –  Il paziente, un uomo di 39 anni che soffriva di un dolore debilitante nella zona di crescita del tumore, oggi sta bene e la massa è quasi scomparsa. Questo grazie a una sola seduta di crioterapia”.

La crioterapia, o crioablazione, è una tecnica che viene eseguita sotto guida radiologica. Uno o più aghi – ognuno di questi congela un’area di circa 3 cm – vengono inseriti all’interno della massa tumorale e il gas che viene iniettato congela il tumore, impedendogli di continuare ad alimentarsi. La massa quindi necrotizza e si riduce fino anche a scomparire.

La fibromatosi desmoide è una forma rara di tumore benigno, in Italia sono diagnosticati circa 150 casi all’anno, può colpire a tutte le età ma si riscontra prevalentemente tra i 18 e i 35 anni, soprattutto in donne in età fertile.

“È un tumore raro e benigno ma purtroppo può essere fortemente invalidante, ho visto pazienti con severe difficoltà motorie, difficoltà anche a stare in piedi per brevi periodi e colpite da costanti dolori – spiega Errani. – Fino ad oggi, quando la situazione è grave ed è necessario intervenire, l’opzione migliore risultava un trattamento chemioterapico a basso dosaggio, terapia che però non porta a una scomparsa della massa ma può solamente bloccare il progredire della malattia. La rimozione chirurgica del tumore è poi solitamente sconsigliata perché i rischi di una recidiva più aggressiva sono altissimi. Dai primi risultati di uno studio americano del Memorial Sloan Kettering Cancer Center e di uno studio multicentrico francese è nata l’idea di utilizzare la crioterapia, già in uso per altre patologie, anche per questo tipo di tumore”.

I follow up dei 6 pazienti già trattati, provenienti da tutta Italia, hanno permesso di constatare un immediato miglioramento della sintomatologia.

“Offrire ai malati non solo una valida alternativa a un trattamento aggressivo o invasivo ma soprattutto una tecnica più efficace è ciò che ogni medico desidera per i propri pazienti – sottolinea il direttore generale Anselmo Campagna. – Per chi è affetto da fibromatosi desmoide oggi il Rizzoli è in grado di farlo. Credendo nelle alte potenzialità della radiologia interventistica, grazie anche al supporto della Regione Emilia-Romagna, con un investimento del Rizzoli di oltre 2 milioni di euro ci doteremo di una nuova apparecchiatura di ultimissima generazione che ci permetterà un più ampio campo di azione nei trattamenti ai nostri pazienti e la possibilità di garantire prestazioni e tecniche altamente all’avanguardia, tra cui crioterapia, termoablazione con radiofrequenza, agobiopsie, sotto guida angiografica/Tac”.


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L’intervento è stato effettuato il 19 luglio scorso. L’impianto, detto cocleo-vestibolare, inserito chirurgicamente nell’orecchio, permetterà al paziente di riacquisire la funzione uditiva ma soprattutto di recuperare importanti deficit vestibolari limitanti attività quotidiane come camminare e mantenere l’equilibrio in spazi poco illuminati.

Il 19 luglio 2021, presso l’AOU Sant’Andrea di Roma, è stato effettuato il primo impianto per il sistema vestibolare in Italia finalizzato alla risoluzione dell’ipofunzione labirintica bilaterale, un deficit che colpisce l’orecchio interno compromettendo la funzione uditiva e quelle legate al sistema vestibolare.

L’intervento, eseguito dall’equipe medica coordinata da Maurizio Barbara docente del Dipartimento di Neuroscienze, salute mentale e organi di senso della Sapienza e direttore della UOC di Otorinolaringoiatria del Sant’Andrea, permetterà al paziente di riacquisire l’udito dal lato operato, ma soprattutto di recuperare importanti deficit vestibolari limitanti attività quotidiane come camminare e mantenere l’equilibrio in spazi poco illuminati.
Il dispositivo impiantato è frutto di un trial clinico sviluppato nell’ambito del progetto Horizon2020 denominato BionicVest, che ha visto la collaborazione della Sapienza con le Università di Las Palmas e Pamplona (Spagna) e del Centro Europeo St. Augustinus di Anversa (Belgio).

“Il progetto – spiega Maurizio Barbara – indaga sulla possibilità di applicare clinicamente un nuovo dispositivo medico, detto impianto cocleo-vestibolare, che combina per l’appunto un impianto cocleare, una tecnologia già nota da decenni per la risoluzione delle sordità profonde, con un impianto vestibolare, quest’ultimo nello specifico con l’obiettivo di stimolare il nervo vestibolare inferiore, afferente del sistema otolitico vestibolare alloggiato nel vestibolo”.


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Le donne sono affette dalla sindrome di Crigler Najjar, che solitamente si risolve solo con un trapianto di fegato. Invece dell’intervento chirurgico, è stato inoculato un virus, svuotato del suo corredo genetico e sostituito con il gene da correggere, che è entrato nel nucleo delle cellule del fegato. Qui ha iniziato a produrre la proteina che i cromosomi originari non erano in grado di sintetizzare.

Sono 3 le pazienti affette da sindrome di Crigler Najjar, malattia genetica rara del fegato, ad essere state curate con successo all’Ospedale di Bergamo con la terapia genica, nell’ambito del progetto internazionale di ricerca denominato “CureCN”, promosso da Genethon e finanziato dalla Comunità Europea all’interno del programma “Horizon 2020”.

La malattia di Crigler Najjar

La malattia di Crigler Najjar condiziona la vita fin dalla nascita, perché il fegato di chi è affetto da questa sindrome ha un difetto genetico che lo rende incapace di eliminare la bilirubina, il pigmento responsabile del colore giallastro della pelle, tipico delle malattie del fegato. La conseguenza è che la bilirubina si accumula nel sangue e nei tessuti e, se non si adottano misure specifiche per ridurne i livelli, si deposita nel sistema nervoso centrale causando danni cerebrali irreversibili. È come se l’ittero fisiologico dei neonati persistesse per tutta la vita anziché risolversi rapidamente.
L’unica strategia per tenere sotto controllo i livelli di bilirubina è sottoporsi a fototerapia a raggi ultravioletti, mentre l’unica procedura per guarire completamente la malattia è sempre stato finora solo il trapianto di fegato.

La cura

La nuova cura invece non prevede alcun intervento chirurgico, ma l’inoculazione in una vena del braccio di un virus innocuo, svuotato del suo corredo genetico e sostituito con il gene da correggere.

La prima ad essere stata curata con questo approccio innovativo è stata Gaia, 28enne, di Varese. Era il 18 novembre 2020 quando all’Ospedale di Bergamo le è stato iniettato questo virus, chiamato in gergo tecnico “adeno-associato”, che ha poi raggiunto il fegato ed è entrato nel nucleo delle cellule, liberando il piccolo frammento genetico che si è posizionato accanto al DNA della paziente. Qui ha iniziato a produrre la proteina che i cromosomi originari non erano in grado di sintetizzare, a causa della mutazione che determina la malattia.

“Per tutta la vita ho dormito ogni notte sotto la luce blu di una lampada UV per contenere il più possibile i livelli di bilirubina, scongiurare possibili danni neurologici e cercare di mitigare il colore giallo della pelle, che spesso ha creato disagio psicologico e sociale – ha spiegato Gaia, una delle assistite -. Il trapianto di fegato era l’unica soluzione per guarire. Oggi, grazie al progetto CureCN e al team di Lorenzo D’Antiga, la terapia genica per Crigler-Najjar è una realtà. Qui a Bergamo ho trovato un gruppo che mi ha accompagnato con competenza, attenzione e grande professionalità, trasmettendomi sicurezza e positività. Grazie a ciò non ho avuto paura di affrontare la terapia genica per prima”.

I risultati di questa sperimentazione, eseguita per la prima volta con successo nell’uomo, sono stati presentati il 26 giugno all’International Liver Congress della Società Europea di Epatologia (EASL). La presentazione è stata annoverata tra le migliori del congresso e inclusa nella selezione “Best of ILC”.

“Dopo quattro mesi di osservazione abbiamo constatato che la terapia ha permesso di raggiungere l’obiettivo principale che ci eravamo preposti, cioè una riduzione della bilirubina che permettesse la sospensione della fototerapia – ha spiegato Lorenzo D’Antiga -. Gaia finalmente ha smesso di dormire sotto le lampade blu della fototerapia. Nel frattempo abbiamo trattato altre due pazienti, una delle quali sospenderà la fototerapia in questi giorni. Ora il nostro obiettivo è quello di mantenere l’efficacia a lungo termine” .

Oltre al Papa Giovanni di Bergamo, capofila nell’arruolamento dei pazienti, fanno parte del progetto di ricerca anche TIGEM Pozzuoli (Organizzazione non-profit fondata dal Telethon italiano) e gli ospedali universitari di Amsterdam AMC e Parigi “Antoine Béclère”. I protagonisti di questo risultato sono però perlopiù italiani. Fondamentale è stato anche il contributo dell’Associazione CIAMI onlus, che da 30 anni sostiene i pazienti affetti dalla sindrome di Crigler Najjar, ed è impegnata nel favorire la ricerca in questo campo.

“Il Papa Giovanni XXIII di Bergamo è tra i centri di riferimento in Europa per la cura delle malattie epatiche nei bambini, comprese quelle rare, che hanno impatti devastanti sulla vita dei bambini e delle loro famiglie – ha commentato Maria Beatrice Stasi, Direttore Generale dell’ASST Papa Giovanni XXIII -. Qui, in parallelo ad una intensa attività trapiantologica, sono attivi numerosi progetti di ricerca che non si sono mai fermati nonostante le difficoltà legate alla pandemia. Dall’emergenza sanitaria siamo riusciti anche a trarre insegnamenti importanti, abbiamo dato un contributo fondamentale alle conoscenze sulla malattia da Coronavirus e confermato il contesto internazionale in cui l’Ospedale di Bergamo si posiziona”.

Un’attività di studio e di ricerca legate a doppio filo con l’attività di cura che ha portato la Pediatria di Bergamo ad individuare il legame tra Coronavirus e Sindrome di Kawasaki, pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet.

Il gruppo di lavoro del Papa Giovanni di Bergamo continuerà la sperimentazione della terapia genica su altri malati, per completare il progetto che prevede in totale il trattamento di 17 pazienti. “Stiamo già lavorando su altre malattie rare del fegato, e speriamo di poter offrire i vantaggi della terapia genica anche a pazienti affetti da altre patologie”, ha concluso D’Antiga.


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La paziente, 54 anni, era costretta su una sedia a rotelle, e la sua grave malformazione era considerata inoperabile. Ora è tornata in piedi e ha iniziato la riabilitazione. L’intervento è unico nel suo genere

Intervento record al Rizzoli. Gli specialisti dell’istituto ortopedico di Bologna sono riusciti, per la prima volta, a curare una cifosi (cioè la curvatura in avanti della colonna vertebrale) di ben 100 gradi che costringeva la paziente, una donna di 54 anni, sulla sedia a rotelle. Per riportare dritta la schiena, i medici del Rizzoli hanno dovuto rimuovere due vertebre toraciche non contigue, risolvendo così una grave malformazione considerata fino ad oggi non operabile. Dopo l’intervento, e un breve periodo in terapia intensiva, la donna è tornata in piedi dopo sette giorni e ha iniziato il percorso di riabilitazione per ricominciare a camminare.

La cifosi, che non permetteva alla donna né di stare in piedi né di camminare, era stata causata da una fusione patologica (anchilosi) di cinque vertebre toraciche. I numerosi interventi precedenti non erano serviti a migliorare le condizioni della 54enne, che era considerata non più operabile per i forti rischi di lesione del midollo spinale, imprigionato nella colonna vertebrale così incurvata.

L’intervento, unico nel suo genere, è durato circa otto ore ed è stato eseguito dall’équipe di Cesare Faldini, direttore della Clinica ortopedica 1 del Rizzoli, affiancato da anestesisti, rianimatori, neurofisiologi e infermieri. Per l’operazione è stata utilizzata una tecnica in 3D per avere un modello della colonna deformata partendo dalla Tac della paziente, in modo da pianificare al meglio la rimozione delle due vertebre e guidare i chirurghi senza ledere il midollo spinale, con un movimento di correzione di oltre 90 gradi in un singolo intervento. Sulla base della Tac sono state progettate anche 12 maschere, costruite sempre con la stampa in 3D, che hanno permesso di applicare le viti nelle vertebre.

“Un risultato fino a oggi impensabile– ammette Faldini- ottenuto combinando la tradizione nella ricerca ortopedica del Rizzoli con tecniche altamente innovative, per offrire una possibilità di correzione chirurgica a quelle rare scoliosi e cifosi fino a oggi considerate inoperabili per la loro gravità”. Si tratta di situazioni rare, precisa il professore, ma “gravemente menomanti per i pazienti. Se la colonna si deforma oltre 90 gradi, cioè compie un angolo retto, da verticale diviene orizzontale, rendendo impossibile stare in piedi e avere una vita di relazione accettabile. Questi pazienti, pur avendo il midollo spinale integro, hanno il controllo volontario delle gambe ma non riescono a utilizzarle e sono costretti a sedere a causa della forma della loro spina dorsale”.

La rimozione di più vertebre in simultanea per riallineare la colonna “è un significativo passo avanti– continua Faldini- in quanto offre una soluzione per correggere cifosi e scoliosi di entità gravissima non affrontabili con tecniche alternative. In questo ambito, la fama dell’Istituto Rizzoli supera ampiamente i confini nazionali: la prestigiosa rivista americana Newsweek ci ha inserito all’11esimo posto tra le ortopedie eccellenti nel mondo e a livello di ricerca una ‘anteprima semplificata’ di questa procedura, presentata negli Stati Uniti alla prestigiosa ‘American academy of orthopaedic surgeons’ nel 2020, è stata premiata come miglior lavoro scientifico nell’ambito della chirurgia vertebrale“.


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